Il
pendolo delle maggioranze ci distruggerà
http://host.uniroma3.it/laboratori/ltaonline/scritture/pendolo.html
di Giuseppe Bertagna e Roberto Maragliano
pubblicato sul n. 75/2003 di “Reset”
A ciascuno
degli autori di queste note è capitato, in tempi e contesti diversi, ma
dentro a climi non dissimili, di essere pubblicamente etichettato come
ispiratore pedagogico di una "grande riforma del sistema di
istruzione e di formazione". Nel mezzo secolo e passa di vita
repubblicana sono state annunciate molte revisioni di un qualche
rilievo, in questo campo. C'è chi si è divertito a contarle, ed è
approdato all'impressionante cifra di trentasei. Sappiamo che fine hanno
fatto, tutte. Ma i due ultimi tentativi, l'uno operato dal
centrosinistra nella seconda metà degli anni novanta e l'altro
attualmente messo in campo dal centrodestra, si distinguono dai
precedenti per una caratteristica, il fatto che aspirano ad una
rilettura globale dell'ordinamento scolastico: non a caso chiamano in
causa, già nel loro autoetichettarsi, il problema di una revisione dei
cicli, cioè delle scansioni generalissime dell'ordinamento. Lo fanno
adesso, e in questa forma così ambiziosa, molto probabilmente perché
mai come ora è evidente lo scollamento tra scuola, committenza sociale
ed utenza di ogni singolo studente.
Pedagogia
e politica
Dovendo
trovare argomenti per un così impegnativo lavoro di
ricomposizione/ricostruzione, si è dunque fatto ricorso, tra le altre,
anche alla fonte dell'elaborazione pedagogica. Non poteva essere
diversamente. E, avendo ciascuno di noi due fornito nel passato, come è
stato da parte di tanti altri, un qualche contributo alla riflessione
pedagogica sulla crisi della scuola, c'è stato richiesto (chi da un
ministro, chi dall'altro) un impegno personale di idee e d'intervento,
relativamente ad alcuni specifici passaggi affrontati dai due diversi
itinerari di maturazione politica del quadro di riforma. E' un impegno
che abbiamo assunto e abbiamo assolto di buon grado, partecipando a
confronti ed elaborazioni collettive, e mai rinunciando alle nostre
convinzioni, di cui ciascuno di noi è geloso custode.
Questo non ha impedito che l'uno e l'altro venissero dipinti come
pedagogisti di corte (organici alle due corti diversamente colorate, è
ovvio).
Riteniamo che un simile cortocircuito d'idee e attributi chiami in causa
un problema di carattere generale, proprio della nostra cultura tout
court, e non solo di quella scolastica. Infatti, un intellettuale,
quando parla, in Italia, è regolarmente identificato come
"organico" ad un progetto, ad una ben precisa visione, ad
un'istituzione, e tale etichetta, moralisticamente attribuitagli come
"segno di dipendenza", riduce, agli occhi di molti,
l'autonomia e il valore intrinseco delle idee, dei propositi e delle
tradizioni culturali a cui si riferisce e di cui egli si fa portatore.
Stando così le cose, a non pochi, per un certo periodo, Maragliano è
apparso "il pedagogista di Berlinguer", e Bertagna "il
pedagogista della Moratti", indipendentemente da quel che l'uno e
l'altro pensano, e dicono, fra l'altro dentro una storia di reciproche e
non equivoche appartenenze (che poi, come si vedrà in seguito, è ben
diverso, perché convergente, da un'immagine esteriore e partitica di
ragionamenti e linguaggi irriducibilmente divergenti).
A questa visione, assai diffusa, di pensieri polarizzati si contrappone
poi, nei fatti, un uso talvolta spregiudicato delle idee
dell'intellettuale da parte del politico, il quale se ne fa schermo o
capro espiatorio, se è il caso, oppure non esita a liberarsene, quando
incompatibili con le mediazioni possibili dell'azione e della decisione
politica. Lo diciamo senza snobismo e con molto rispetto, e con intento
descrittivo più che valutativo, perché ambedue sappiamo bene la
differenza che passa tra la relativa semplicità di un'elaborazione
tecnica e culturale e la complessa operatività di un progetto politico
democratico, e perché ambedue facciamo sforzi per non cedere sia alla
sindrome intellettuale che Derrida ha chiamato «tentazione di Siracusa»
(rovinò uno come Platone, si immagini quanto sarebbe disastrosa per
chiunque altro) sia a quella opposta che è stata battezzata di «San
Casciano» (dal nome del paese in cui si ritirò uno come Machiavelli,
deluso dalla politica: non ha senso lamentarsi del fatto che la
dialettica democratica non abbia i ritmi e i contenuti che ciascuno
gradirebbe). Del resto, come pretendere esiti diversi da quelli di un
processo lento e graduale, ma ampiamente condiviso, se ogni decisione
politica davvero democratica, tanto più a riguardo di un progetto di
così ampio respiro come la riforma del sistema educativo nazionale di
istruzione e di formazione, esige un reale e profondo coinvolgimento di
un numero elevato di soggetti sociali (famiglie, sindacati, corpi
professionali, partiti e tradizioni culturali) e istituzionali
(Parlamento, Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni, Governo,
istituzioni scolastiche)?
Operatori
intellettuali
Per
una ragione o per l'altra, comunque, va registrato che le nostre idee di
pedagogisti si sono trovate e tuttora si trovano, spesso, a subire un
duplice annullamento di identità: da una parte appaiono
"comprate", dall'altro risultano deprezzate.
E' mai possibile, allora, che sopravvivano come idee, come spunti per un
comune discutere civile, come diagnosi e prognosi con cui confrontarsi e
attraverso le quali far crescere la qualità e la quantità di un
dibattito che, sui temi della scuola e dell'educazione, si presenta, al
contrario, clamorosamente asfittico e intriso delle più inaccettabili
semplificazioni?
Evidentemente è chiedere troppo, se si considera che a completare un
quadro così poco confortante vengono ad aggiungersi per un verso la
febbre titolistica delle gazzette e per l'altro la fretta e la smania
effettistica dei commentatori pubblici, ai quali entrare nel merito
delle questioni e delle posizioni scolastiche, ed abbandonare il
sentimento di essere in ogni caso e in ogni campo culturale e politico
l'ombelico del mondo, costa fatica. Così, piuttosto che leggere e
analizzare nel merito pagine e pagine di analisi e di proposte, si
affidano a qualche stravagante estrapolazione, spesso condita di
pregiudizio ideologico.
Ci sembra che in un'analoga situazione si trovi qualsiasi insegnante
voglia ragionare con la sua testa e intenda proporre, per quel che
valgono, le sue idee di operatore intellettuale: si troverà subito
collocato in una schiera, e deprivato della sua identità di pensatore
libero e responsabile. E questa, ne siamo certi, è abitudine che non
aiuta la scuola, né, tantomeno, la democrazia e la convivenza civile a
diventare migliori.
Non dovrebbe dunque sorprendere il fatto che, pur mantenendo
orientamenti culturali e riferimenti ideali non omogenei, talora
divergenti, ci troviamo associati non solo nel desiderio di denunciare
la propensione all'iperideologismo di cui è detto sopra (insidia
particolarmente pericolosa per chi svolge compiti di educazione), ma
anche e soprattutto nella considerazione dell'impasse in cui si
trova l'impegno di ridisegnare l'assetto scolastico e formativo, messo
in atto dai due diversi schieramenti politici succedutisi sulla scena
italiana negli ultimi sei anni.
I
dati (allarmanti)
Forse
non ci si è ancora e del tutto resi conto che mentre Roma discute,
Sagunto cade. Siamo la sesta economia del mondo, ma per reddito lordo
pro capite corretto in base al potere d'acquisto scivoliamo, nel solo
triennio 1999-2001, al ventottesimo posto. Dal 1995 al 2001, la nostra
quota nel commercio mondiale è diminuita di un quinto e, nello stesso
arco di tempo, la crescita è stata la metà di quella degli altri Paesi
economicamente evoluti. La produzione industriale tra il 1995 e il 2002,
è salita del 25% in Usa, del 18% in Francia, del 17% in Germania e solo
del 4% da noi. La grande industria diminuisce a vista d'occhio anno dopo
anno (v. adesso il caso Fiat). Nei settori dell'alta tecnologia siamo
inconsistenti. Il tasso di occupazione della popolazione attiva è tra i
più bassi d'Europa. Il nostro estero è la Romania, o la Turchia, non
certo la Francia o la Germania. Non occorre altro per capire perché
l'ultima decade del XX secolo sia stata la peggiore, in fatto di
sviluppo economico, degli ultimi 150 anni, dall'unità d'Italia in
avanti. Né occorre altro per capire ciò che le Conferenze Ue da
Lisbona a Barcellona ci hanno recentemente riproposto come vincolo delle
nostre politiche formative e che da Adam Smith ad Hanna Arendt
costituisce ormai un assioma: non c'è civiltà e sviluppo economico
possibile senza un'istruzione e una formazione universale di alto
livello culturale, etico ed educativo.
Non possiamo insomma più permetterci il lusso di 34 giovani su 100 che
escono a 18 anni dal sistema di istruzione e di formazione senza nemmeno
una qualifica, i tassi di dispersione che abbiamo nelle scuole medie e
superiori, il 15% dei giovani italiani tra i 15 e i 19 anni e il 30% di
quelli di 20-24 anni che non sono coinvolti in nessuna attività di
istruzione o formazione professionale né sono inseriti nel mondo del
lavoro (percentuali due volte più alte rispetto alle medie dell'Unione
Europea), il nostro apprendistato in tutti i sensi lillipuziano (50.000
giovani tra i 15 e i 18 anni, contro i 350.000 della Francia e il numero
ancora maggiore della Germania); oppure ancora un'università che
scambia i voti alti e la concessione di titoli per competenze acquisite.
Non è solo, o tanto, questione che, usando le metodologie di calcolo
adottate dall'Ocse (che attualizzano i redditi che ogni persona è in
grado di generare nel corso della sua vita lavorativa in base alle
competenze acquisite durante il suo percorso educativo e formativo), si
arriva a determinare che all'atto di entrare nel mondo del lavoro ogni
italiano contribuisce in media al capitale umano del proprio Paese per
circa 940 mila Euro, un valore inferiore del 20-25% rispetto a quello
che porta con sé un giovane inglese o tedesco che ha completato il
ciclo di studi, e inferiore del 40% rispetto ad un giovane diplomato o
laureato americano.
Sfide
comuni
È
piuttosto questione di interrogarci a fondo, con occhi nuovi, sul grado
di corrispondenza tra organizzazione della scuola, esigenze formative
individuali e dinamiche socio-culturali, tenendo fra l'altro conto di un
altro elemento dirompente e raramente calcolato nella progettualità
formativa. Da noi, la popolazione compresa tra i 5 e il 19 anni,
costituisce appena il 15% della popolazione totale, contro il 20% in
Francia, il 17% in Germania e il 19% nel Regno Unito. E le proiezioni
demografiche dicono che la popolazione in età scolare continuerà a
diminuire in questo decennio: in Italia, per ogni 100 ragazzi che nel
2000 avevano tra i 5 e i 14 anni, nel 2010 ve ne saranno 89, e su 100
ragazzi di 15-19 anni, nel 2010 ve ne saranno 95. Ovvio che, con questi
vuoti, non si potrà che prevedere un'immigrazione molto più intensa ed
estesa di quanto sia appena cominciata. Il problema del
multiculturalismo e dalla necessità pedagogica di trasformarlo in
costruttivo interculturalismo si impone, quindi, in tutta la sua
evidenza di grande sfida formativa del secolo XXI. Viceversa dovremo
concludere che ci rassegniamo a consegnare alle future generazioni un
Paese in declino, senza più l'ambizione di un'identità capace di
combinare creativamente il vecchio e il nuovo, il globale e il locale,
la cura di sé e l'incontro con l'altro.
Alla crisi economica e a quella demografica (ambedue più pronunciate
nel nostro Paese di quanto non siano altrove) si aggiunge la messa in
dubbio della condizione di esclusività finora riconosciuta alla
scrittura a stampa, nell'ambito della riproduzione sociale (e
soprattutto scolastica) dei saperi. Al di là dei luttuosi e ormai
inaccettabili schemi d'interpretazione che vedono negli attuali assetti
socioculturali gli effetti di omologazione, appiattimento, impoverimento
prodotti dall'uso delle sempre più invasive e molecolari tecnologie
della conoscenza e della comunicazione, è da prendere in seria
considerazione l'opportunità che l'introduzione dei media digitali e di
rete offre alle istituzioni scolastiche e formative, per il fatto di
creare la condizione affatto nuova di una pluralità di media, e quindi
per il fatto di offrire, tramite questa, una risorsa per la promozione
di raffronti, interazioni, collaborazioni tra tecnologia e tecnologia, e
tra sapere e sapere. Assumere un simile approccio consentirebbe alla
scuola di far valere, nella selezione e presentazione dei contenuti
dell'insegnamento/apprendimento, una cornice più ampia e solida, più
ricca di elementi di concettualizzazione e d'interpretazione di quanto
non sia quella imposta dall'abitudine a far coincidere la conoscenza tout
court con la forma che essa assume per il tramite del libro.
Inoltre, così procedendo, si costituirebbero le basi epistemologiche
per l'affermazione di una cultura non esclusivamente riproduttiva, ma
impegnata anche sul versante della produzione e della costruzione.
Un
percorso da proseguire
In
questo contesto, ci chiediamo, che senso ha affrontare i problemi della
riforma del sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione
(non solo e non tanto quella ordinamentale, ma anche e soprattutto la
riforma culturale e pedagogica) vedendoci l'espressione di una parte
sola, o, peggio, di argomenti da brandire come armi dentro il ring della
politica? Non è miopia, questa? Piuttosto, non dovrebbero, simili
problemi, costituire una preoccupazione per tutti noi, e non dovremmo
fare ogni sforzo per superare l'angustia di ragionamenti ed interventi
che non superano i limiti temporali d'una legislatura, assumendo, al
posto loro, prospettive di intervento che impegnino uno o due decenni?
Se nel 2006 e poi nel 2011 cambieranno le maggioranze parlamentari,
dovremo rassegnarci ad avere, in corrispondenza dell'una e dell'altra
consultazione, una politica scolastica impegnata a proporre e attuare
come primo obiettivo la cancellazione della politica perseguita dalla
maggioranza precedente? E quando potrà mai aver fine un simile pendolo?
Soprattutto: una volta esaurite le sue oscillazioni, cosa troverà in
piedi, attorno e sotto a sé?
Riteniamo che sarebbe meglio, assai meglio, fin da ora, darsi da fare
per cogliere gli elementi di continuità di un percorso iniziato nel
1997 (almeno per ciò che attiene il ripensamento degli ordinamenti, ma
qualche anno prima se si tiene conto del processo di sgretolamento del
sistema centralistico e di promozione dell'autonomia), per esprimere poi
tali elementi di continuità attraverso linguaggi più elevati e meno
ideologicamente segnati di quelli adottati fin qui, e per progettarne
insieme gli sviluppi, alla luce delle condizioni nuove che nei fatti già
si sono venute a determinare, e che nel futuro non mancheranno di
emergere. È impossibile uscire da questi problemi, così almeno noi
pensiamo, rinunciando ad un impegno di corresponsabilizzazione che
chiami in causa le forze dei diversi schieramenti e le componga
riconoscendo le reciproche ragioni.
La legge delega che il governo ha presentato nel marzo scorso non è
sfuggita, per tante ragioni su cui non il caso di ritornare, al vizio di
origine del precedente tentativo di riforma Berlinguer: combinare
insieme organicità e urgenza. Per di più, in presenza dell'autentica
rivoluzione operativa e di mentalità rappresentata dalla legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, di cui molti degli stessi
protagonisti che hanno contribuito a definirla sembrano non essersi
ancora accorti.
La conseguenza più immediata di tale modo di affrontare la questione
non era imprevedibile: rifiuto pregiudiziale dell'opposizione, divisioni
nella maggioranza, fastidio di molti parlamentari, lentezza dell'iter
legislativo che ha costretto a mantenere vivo il problema della riforma
con le discusse procedure della sperimentazione in atto nella scuola
dell'infanzia e primaria, nonché, in alcune Regioni, nella formazione
professionale.
E' possibile che almeno una parte delle resistenze interne alla
maggioranza e di quelle maturate nel mondo sindacale e professionale
siano legate a gravi ed evidenti difetti di comunicazione e a decisioni
intempestive (visto che sperimentazioni di ben più ampia portata, come
la "Brocca" dei primi anni novanta, relativa ai programmi di
una scuola secondaria superiore tesa alla riforma, oppure quelle
addirittura amministrative varate dalla Direzioni generali del
Ministero, i cosiddetti Progetti assistiti, non hanno suscitato nemmeno
una minima parte dell'attuale levata di scudi), ma certamente la
mancanza di chiarezza e l'impressione che non si sappia tuttora dove si
potrà davvero andare a finire sono fenomeni percepibili, e rendono
particolarmente difficoltosa la prospettiva di una condivisa direzione
di marcia.
Oltre
la contingenza
A
questo si può forse aggiungere anche la sensazione che, nei fatti, la
scuola e la formazione non costituiscano per nulla una vera priorità
del parlamento e delle forze politiche, sindacali e culturali del Paese.
Infatti, e non da adesso, appare assai poco diffusa la consapevolezza
che non si tratti tanto di affrontare e risolvere singoli problemi (gli
insegnanti, il contratto, la struttura dei cicli, l'inglese,
l'informatica, il collegamento scuola/lavoro, la valutazione, e così
via), quanto innanzitutto di promuovere un investimento globale della
società sulla scuola e sulla formazione, allo scopo di rivedere in
radice se stessa. Al di là delle belle parole, questa coscienza
manca a tutti i livelli, e non solo, purtroppo, al livello politico (di
governo o di opposizione).
Più che davanti ad una crisi della scuola, quindi, sembra corretto
riconoscere di essere in presenza di una crisi dei paradigmi culturali
generali di comprensione e di analisi della realtà contemporanea, crisi
che, non avendo rientri brevi e riscontri immediati, rende difficile, se
non impossibile, mobilitare un'opinione pubblica abituata all'emergenza
televisiva e all'incandescenza della disputa ideologica (la leggenda
metropolitana d'una scuola svenduta ai privati, le ricorrenti, ciniche
lamentazioni per una cultura classica svilita se non annientata, l'idea
che il proposito di ridare dignità educativa e culturale all'istruzione
e formazione professionale non sia altro che una litote per rifar posto
ad un vieto classismo, stile anni cinquanta) piuttosto che al confronto
critico su temi per loro intrinseca natura complessi e non certo
riducibili ad un insieme di comodi slogan.
Se a questo si aggiunge che l'opposizione, a sua volta, avendo lasciato
cadere gli elementi di maggiore innovazione che pure aveva impostato
nella passata legislatura, si è contrapposta al governo su elementi
parziali quando non arretrati (il libro bianco sulla scuola pubblicato
all'inizio dell'estate dalla rivista "Aprile" è un perfetto
esempio di come si possa fare opposizione pregiudiziale senza un solo
dato a supporto delle proprie tesi e senza voler fornire un'alternativa
praticabile), si comprende perché si sia ancora immersi in un dibattito
nel quale la contrapposizione degli slogan ideologici prevale
sistematicamente sulla valutazione di merito delle decisioni da assumere
(che effetti produrranno? quanto costano? come e con quali condizioni
potranno conseguire un esito positivo?).
Così, lo sviluppo positivo dell'orientamento assunto dalla riforma
precedente, in merito al passaggio dal solo obbligo scolastico a quello
formativo, attraverso l'affermazione del più ampio concetto di
"diritto-dovere all'istruzione e alla formazione per 12 anni",
non è cosa che sia stata ben capita, anche perché non è stata
accompagnata da provvedimenti coerenti, chiari e concreti o, a fronte di
rilevanti ostacoli realizzativi, da un piano a medio termine di
sperimentazione diffusa, con obiettivi, tempi e funzioni controllabili,
e indispensabili teorie di supporto. E così, ancora, se le forze di
governo si sono trovate, in un qualche modo, condizionate da un rapporto
fra istruzione e formazione subalterno alla salvaguardia di consolidate
rendite di posizione, l'opposizione tende paradossalmente a declinare il
tema dentro gli orizzonti concettuali del vecchio scolasticismo.
In conclusione, per una ragione o per l'altra, resta il fatto che i
diversi interlocutori continuano a confrontarsi e a scontrarsi con la
testa rivolta all'indietro, come se le nuove questioni fossero ancora
quelle di venti o trent'anni fa. Se non si farà uno sforzo congiunto
per superare questa condizione di anacronismo intellettuale e politico,
difficilmente il nostro Paese maturerà una democrazia compiuta e,
soprattutto, saprà darsi gli strumenti progettuali necessari per
evitare l'auto-emarginazione economica, culturale ed educativa, e il
conseguente, inesorabile declino.