Il 10 agosto 1994, sul quotidiano torinese
La
Stampa, con il titolo "Basta con gli uomini invisibili",
è comparsa un’intervista all’on. Giuseppe Tatarella, vicepresidente del
Consiglio dei Ministri, raccolta da Dario Cresto-Dina. In essa l’uomo politico
denunciava la lotta condotta da "poteri forti" contro il
governo guidato dall’on. Silvio Berlusconi. L’agenzia giornalistica Adnkronos
ha interpellato sull’argomento il professor Angelo Codevilla, politologo di
The Hoover Institution on War, Revolution, and Peace della Stanford University,
prestigiosa istituzione culturale di San Francisco, in California, che ha la sua
sede principale a Palo Alto. Trascriviamo integralmente il dispaccio, diffuso
l’11 agosto dall’agenzia romana, che non è stato ripreso dalla stampa come
certamente meritava. Il titolo è redazionale.
Palo Alto, 11 agosto. "I poteri occulti di cui parla
l’on. Tatarella esistono, condizionano il Governo e continueranno a farlo
finché i mezzi a loro disposizione per far questo non gli verranno tolti. Chi
ha il potere formale in questo momento, invece di metterlo sul piano della
cospirazione, dovrebbe usarlo per eliminarli". È questa l’opinione
del professor Angelo Codevilla, politologo dell’Hoover Institution della
Stanford University, che raggiunto telefonicamente dall’Adnkronos interviene
sul problema sollevato ieri in un’intervista al quotidiano La Stampa
dal vice-presidente del Consiglio Giuseppe Tatarella.
"Vorrei chiedere all’on. Tatarella
— dice
Codevilla — perché non avete cominciato a togliere di mezzo questi poteri.
Non state lì a rimproverare la gente di fare ciò che fa naturalmente. Adesso
voi siete al Governo, avete i poteri formali, esercitateli. Perché i poteri
informali sono importanti nella misura in cui quelli formali non sono
esercitati".
Ma allora questi poteri occulti esistono? "In Italia —
spiega il politologo — per 45 anni c’è stato un regime che è arrivato a
spendere la metà del reddito nazionale. Questi che lo spendevano tre mesi fa,
sono ancora lì a spenderlo. Finché c’è la metà del reddito nazionale da
spendere e finché c’è gente che può attingere a quei fondi e finché il
Governo non leva a questa gente il potere di gestire i soldi del contribuente,
ci saranno sempre questi poteri. Allora le preoccupazioni di Tatarella sono
state espresse in modo un po’ cospiratoriale, mentre è un dato di fatto che
questi poteri agiscono".
"Facciamo l’esempio del Csm
— prosegue Codevilla
— una creatura della prima Repubblica: il fatto che ci siano magistrati
politici che appartengono a correnti legate con i vecchi partiti è anche
sovversivo. Qui ci sono organi della prima Repubblica che sono nella seconda e
che non vogliono bene a quest’ultima: queste cose si dovrebbero cambiare. Mi
sarebbe piaciuto di più, quindi, se il vice-presidente del Consiglio avesse
parlato di una transizione ancora incompleta nella quale ci sono questi organi
della prima Repubblica che sopravvivono e che devono essere cambiati perché il
popolo ha votato proprio per cambiare, e farlo vuol dire togliere questi
poteri".
"La Costituzione non parla della Rai e dell’Inps, né
di Iri, Eni, Mediobanca
— dice Codevilla —. Per quanto riguarda
l’industria privata, se fosse veramente privata e se non potesse attingere ai
soldi del contribuente e non potesse ottenere privilegi, allora non sarebbe un
pericolo. L’industria privata diventa un pericolo quando cessa di essere
privata e comincia ad esercitare i poteri dello Stato".
Ma come si fa allora ad eliminare questi poteri? Codevilla ha
una ricetta molto semplice: "Per toglierli — dice — si
comincia tagliando le spese dello Stato, dando ad ogni contribuente titolo
personale sui suoi soldi; non metterli più nella cassa dell’Inps, ma
permettere che l’individuo possa investire come decide lui. Così si toglie il
potere ai potenti. Seconda manovra: si licenziano i burocrati".
"Per riformare
— conclude Codevilla — la
prossima volta che si fa una legge finanziaria sotto la voce Rai ci si
mette uno zero e si privatizza. Tutti gli enti che attingono ai soldi del
contribuente devono essere dati al privato. Si comincia da zero [con] i
soldi pubblici, tagliando i collegamenti tra i soldi dello Stato e queste
strutture. Poi si fanno altre cose, ma se non si fa questo, se non si taglia
questo nexus finanziario, allora si continua così. Ha ragione quindi chi
parla di poteri oscuri, ma chi ha il potere formale deve esercitarlo eliminando
queste strutture e, se non lo fa, non vada poi a lagnarsi se ci sono
ancora".
Dinesh
D'Souza, ricercatore alla Hoover Institution. Teorico dell'inferiorità
"naturale" degli afroamericani in un articolo intitolato "Encomio
dell'Impero Americano" sostiene: "gli americani devono
finalmente riconoscere che il loro paese e' divenuto un impero [...] il più
magnanimo degli imperi che il mondo abbia mai conosciuto".
Christian Science Monitor 26 aprile 2002.
LE MONDE diplomatique - Settembre 2002
le dinamiche del
disordine mondiale
Le tentazioni
imperiali degli Stati uniti
Perché tanto odio nei nostri confronti? Nel
commemorare gli attentati dell'11 settembre, gli americani continuano a porsi la
domanda. Per rispondere, dovrebbero abbandonare il loro unilateralismo e
ascoltare quelle voci che, da varie parti del mondo, criticano le ingiustizie
dell'ordine internazionale. Negli Stati uniti, tanto il cinema quanto la
televisione mostrano, ciascuno a suo modo, lo smarrimento di una società
lacerata tra aspirazioni contraddittorie, tra proclami bellicosi di vendetta e
ideali di giustizia (si legga alle pagine 16 e 17). Ma l'amministrazione Bush,
come peraltro anche una parte della destra religiosa cristiana schierata dietro
il governo israeliano, non ha in questo senso alcuna remora e sta mettendo a
punto un nuovo corpus di dottrine diplomatiche e militari, basato sul concetto
di intervento preventivo (si legga alle pagine 12 e 13). Un'operazione
funzionale alla massima aspirazione dell'attuale leadership: quella di
trasformare gli Stati uniti nella Roma del XXI secolo
PHILIP S. GOLUB
Qualche mese prima degli attentati dell'11
settembre, lo storico americano Arthur Schlesinger Jr. aveva avanzato l'ipotesi
che «malgrado la tentazione da superpotenza» generata dall'unipolarismo, gli
Stati uniti non avrebbero sconfinato nell'imperialismo, visto che nessun paese
da solo era in grado «di assumere il ruolo di arbitro o di gendarme mondiale»
e di raccogliere le sfide globali demografiche, politiche e ambientali del XXI
secolo (1). Come molti
intellettuali, Schlesinger era fiducioso rispetto alla «capacità
d'autoregolazione della democrazia» americana e alla razionalità di chi
effettivamente prende le decisioni.
Charles William Maynes, voce influente nell'ambiente della politica estera
americana, affermava con lo stesso spirito che «l'America è un paese dotato di
capacità imperiali ma privo di vocazione imperialiste» (2).
Oggi bisogna arrendersi all'evidenza: con George W. Bush sta emergendo una nuova
grammatica imperiale, che ricorda quella in voga alla fine del XIX secolo,
quando gli Stati uniti si lanciarono nella competizione coloniale facendo i loro
primi importanti passi verso un'espansione mondiale nei Caraibi, in Asia e nel
Pacifico. All'epoca, un prodigioso fervore imperialista si era impadronito del
paese di Jefferson e Lincoln. Giornalisti, uomini d'affari, banchieri, e
politici gareggiavano in ardore nella promozione di una robusta politica di
conquista del mondo. Gli «occhi di chi dirigeva l'economia erano puntati verso
la supremazia industriale mondiale» (3),
mentre i politici sognavano una «splendida piccola guerra» (secondo la celebre
espressione di Theodore Roosevelt) che serviva da giustificazione all'espansione
internazionale. «Nel XIX secolo nessun popolo ha eguagliato le nostre
conquiste, le nostre colonizzazioni e la nostra espansione (...); ora nulla ci
fermerà», affermava nel 1895 il senatore Henry Cabot Lodge, capofila del
partito imperialista (4). Per
Theodore Roosevelt, a suo tempo ammiratore del poeta imperiale inglese Rudyard
Kipling, la questione era evidente: «Voglio - diceva - che gli Stati uniti
divengano la potenza dominante nel Pacifico». E aggiungeva: «il popolo
americano desidera compiere gesta degne di una grande potenza» (5).
Nel riassumere questo spirito imperialista diffuso alla fine del XIX secolo, un
certo Marse Henry Watterson, un giornalista, scriveva nel 1896 con orgoglio e in
maniera curiosamente premonitrice: «siamo una grande repubblica imperiale
destinata a esercitare un'influenza determinante sull'umanità e a plasmare
l'avvenire del mondo come nessun altra nazione, compreso l'impero romano, abbia
mai fatto» (6).
La storiografia tradizionale americana ha a lungo considerato questo Sturm und
Drang imperialista come un'aberrazione in un percorso democratico in realtà
piuttosto regolare. Nati e forgiati dalla lotta anti-coloniale contro l'impero
britannico e le monarchie assolutiste europee, gli Stati uniti non erano da
ritenersi vaccinati per sempre contro il virus imperialista?
Un secolo più tardi, tuttavia, quando ha inizio un nuovo periodo di espansione
e di «formalizzazione» dell'impero americano, Roma è tornata a essere lo
specchio lontano ma ossessivo delle élites americane. Gli Stati uniti,
dall'alto dell'unipolarismo acquisito nel 1991 e rafforzato dopo l'11 settembre
da una mobilitazione militare di ampiezza eccezionale, abbagliati dalla loro
stessa forza, oggi si considerano apertamente una potenza imperiale. Per la
prima volta dalla fine del XIX secolo, lo spiegamento della forza si accompagna
a un esplicito discorso di legittimazione dell'impero. «Il fatto è - afferma
Charles Krauthammer, editorialista del Washington Post e ideologo di punta della
nuova destra americana - che dai tempi di Roma nessun paese è stato
culturalmente, tecnicamente e militarmente tanto dominante» (7).
«L'America - scriveva Krauthammer già nel 1999 - sovrasta il mondo come un
colosso (...). Dall'epoca in cui Roma distrusse Cartagine, nessun altra grande
potenza ha mai toccato le vette che noi abbiamo raggiunto». Per Robert Kaplan,
saggista e mentore di George W. Bush in fatto di politica internazionale, «la
vittoria della seconda guerra mondiale ha trasformato gli Stati uniti in potenza
universale, come successe a Roma all'epoca della seconda guerra punica» (8).
Roma è divenuta il riferimento obbligato anche per autori collocati più al
centro nello scacchiere politico. Joseph S. Nye Jr., rettore della Kennedy
School of Government all'università di Harvard e a capo del National
Intelligence Council con Clinton inizia così il suo ultimo libro: «Dai tempi
di Roma, non è mai esistita una nazione che abbia tanto oscurato le altre» (9).
Paul Kennedy storico di fama conosciuto per la tesi sviluppata negli anni '80
sulla «sovra-esposizione imperiale» degli Stati uniti, si spinge ancora più
lontano: «Né la Pax britannica (...) né la la Francia napoleonica (...) né
la Spagna di Filippo II (...) né l'impero di Carlomagno (...) né lo stesso
impero romano sono comparabili» all'attuale dominio americano (10).
«Non si è mai manifestata - aggiunge lo studioso con maggiore freddezza - una
tale disparità di potere» nel sistema mondiale.
Insomma, gli ambienti oltre Atlantico più o meno legati al potere concordano
sul fatto che «gli Stati uniti oggi godono di un primato che non ha paragone
con gli imperi del passato, nemmeno i più grandi» (11).
Al di là della sua funzione descrittiva, la frequenza dell'analogia romana così
come l'ubiquità della parola «impero» nella stampa e nelle riviste
specializzate americane illustrano la costruzione di una nuova ideologia
imperiale.
«Ragioni in favore di un impero americano»: questo l'inequivocabile titolo di
un articolo di Max Boot, editorialista del Wall Street Journal, in cui si può
leggere: «Non è un caso che l'America [abbia oggi intrapreso] azioni militari
in molti paesi dove generazioni di soldati coloniali britannici hanno condotto
le loro campagne (...), in zone dove è stato necessario l'intervento degli
eserciti occidentali per soffocare il disordine». Secondo Boot, «l'Afghanistan
e altre terre difficili implorano oggi [l'Occidente] affinché crei
un'amministrazione straniera illuminata come quella un tempo offerta da quegli
inglesi fiduciosi, con i loro pantaloni da cavallerizzo e i caschi coloniali» (12).
Un altro ideologo di destra, Dinesh D'Souza, ricercatore alla Hoover Institution
che si era fatto notare qualche anno fa difendendo le teorie sull'inferiorità
«naturale» degli afro-americani, afferma in un articolo intitolato «Encomio
dell'impero americano» che gli americani devono finalmente riconoscere che il
loro paese «è divenuto un impero (...), il più magnanimo degli imperi che il
mondo abbia mai conosciuto» (13).
A queste voci estreme della nuova destra si aggiungono quelle di accademici
quali Stephen Peter Rosen, direttore dell'Istituto Olin per gli studi strategici
dell'università di Harvard. Quest'ultimo afferma con superbo distacco
scientifico che una «entità politica che dispone di una potenza militare
schiacciante e che utilizza questo potere per influire sul comportamento degli
altri stati non può che definirsi impero (...). Il nostro scopo - prosegue
Rosen - non è combattere un rivale, poiché non ve ne sono, ma conservare la
nostra posizione imperiale e mantenere l'ordine imperiale» (14).
Un ordine, come sottolinea un altro professore di Harvard, del tutto «plasmato
a vantaggio [esclusivo] degli obiettivi imperiali americani», nel quale «l'impero
sottoscrive gli elementi dell'ordine giuridico internazionale che gli convengono
(l'Organizzazione mondiale del commercio, Wto, per esempio), ignorando
completamente o sabotando quelli che non gli convengono (il protocollo di Kyoto,
la Corte penale internazionale, il trattato Abm)» (15).
Il fatto che l'idea stessa di impero sia in opposizione radicale con la
concezione derivata da Tocqueville che gli americani tradizionalmente hanno di
se stessi - come eccezione democratica tra le nazioni moderne - non sembra
essere un problema insormontabile. Coloro che ancora hanno degli scrupoli - e ce
ne sono sempre meno - aggiungono gli aggettivi «benevolente» e «soft» alle
parole «impero» ed «egemonia».
Ad esempio, Robert Kagan del Carnegie Endowment scrive: «la verità è che
l'egemonia benevolente [benevolent hegemony] esercitata dagli Stati uniti è
positiva per una vasta porzione della popolazione mondiale.
Senza alcun dubbio è la migliore soluzione tra tutte le alternative possibili»
(16).
Cento anni prima, Theodore Roosvelt usava quasi le stesse parole.
Rifiutando ogni comparazione tra gli Stati uniti e i predatori coloniali europei
di quell'epoca, affermava: «La semplice verità è che la nostra politica di
espansione, inscritta in tutta la storia americana (...), non assomiglia in
nulla all'imperialismo. (...) Fino a oggi non ho incontrato un solo imperialista
in tutto il paese» (17). Più
diretto, Sebastian Mallaby si proclama un «imperialista riluttante».
Editorialista del Washington Post (giornale reso celebre per gli articoli sullo
scandalo Watergate e per la sua opposizione, tardiva, alla guerra del Vietnam,
ma divenuto dopo l'11 settembre un organo militante dell'impero), Sebastian
Mallaby suggeriva, nell'aprile scorso, nella rivista decisamente seria Foreign
Affairs, che l'attuale disordine mondiale esige dagli Stati uniti una politica
imperiale.
Nel delineare un quadro apocalittico del terzo mondo, dove si combinerebbero
fallimento degli stati, crescita demografica incontrollata, violenza endemica e
disgregazione sociale, Mallaby sostiene che l'unica scelta razionale sarebbe
tornare all'imperialismo, vale a dire alla messa sotto diretta tutela degli
stati del terzo mondo che minacciano la sicurezza dell'Occidente. Secondo
Mallaby, «poiché le opzioni non imperialiste hanno dimostrato la loro
inefficacia (...), la logica del neo-imperialismo è troppo forte perchè
l'amministrazione Bush vi possa resistere» (18).
In realtà, Bush non sembra resistere molto alla «logica» neo-imperiale.
Certo, è riluttante a investire dollari per ricostruire stati «in bancarotta»
o a impegnare il suo paese in interventi umanitari. Ma non esita un istante a
dispiegare le forze armate americane ai quattro angoli del mondo per schiacciare
«i nemici della civiltà» e «le forze del male». Del resto, la sua semantica
- i riferimenti costanti alla lotta tra la «civiltà» e la «barbarie» e la
«pacificazione» dei barbari - tradisce un pensiero imperiale assolutamente
classico.
Non sappiamo fino a che punto Bush abbia fatto suo l'insegnamento prodigato da
quelle prestigiose istituzioni che sono Yale e Harvard, ma dopo l'11 settembre
è effettivamente diventato il Cesare del nuovo partito imperiale americano.
Alla pari di Cesare che, secondo Cicerone, «ha riportato successi definitivi in
scontri importantissimi con le popolazioni più bellicose (...), ed è riuscito
a spaventarli, respingerli, domarli, abituarli a obbedire all'autorità del
popolo romano» (19), Bush e
la nuova destra americana intendono ormai assicurare la sicurezza e la prosperità
dell'impero attraverso la guerra, sottomettendo i popoli recalcitranti del terzo
mondo, rovesciando gli «Stati canaglia», e forse ponendo sotto tutela gli «stati
falliti» post-coloniali.
Alla ricerca di una sicurezza che sperano di ottenere grazie alla sola forza
delle armi piuttosto che attraverso la cooperazione, gli Stati uniti agiscono
soli o con coalizioni occasionali, in modo unilaterale e in funzione di
interessi nazionali definiti assai rigidamente.
Piuttosto che affrontare le cause economiche e sociali che favoriscono la
riproduzione permanente della violenza nei paesi del Sud, li stanno
destabilizzando ancor di più dispiegandovi le loro forze armate.
Che l'obiettivo degli Stati uniti non sia l'acquisizione territoriale diretta ma
il controllo non cambia granché la questione: gli imperialisti «benevolenti»
o «riluttanti» sono comunque degli imperialisti.
Se i paesi del terzo mondo devono sottomettersi e conoscere una nuova era di
colonizzazione o di semi-sovranità, l'Europa dovrà accontentarsi di uno status
subordinato nel sistema imperiale. L'Europa, nella visione americana nata dall'unipolarismo
acquisita nel 1991 e rafforzata dopo l'11 settembre, lungi dall'essere una
potenza autonoma strategicamente, resterebbe una zona dipendente, non avendo «né
la volontà né la capacità di difendere il suo paradiso (...); [la sua
protezione] dipende dalla volontà americana» di fare la guerra (20).
Si ritroverebbe inserita in una nuova divisione del lavoro imperiale nella quale
«gli americani fanno la guerra, mentre i francesi, gli inglesi e i tedeschi
bonificano le zone di frontiera, gli olandesi, gli svizzeri e gli scandinavi
fungono da ausiliari umanitari». Attualmente, gli «americani ripongono scarsa
fiducia nei loro alleati (...), ad eccezione degli inglesi, escludendoli da ogni
attività che non sia il lavoro poliziesco più subordinato» (21).
Zbigniew Brzezinski, ideatore del jihad anti-sovietico in Afghanistan, aveva già
articolato un concetto analogo qualche anno fa. Secondo lui e molti altri
strateghi americani, l'obiettivo dell'America «deve essere mantenere i nostri
vassalli in uno stato di dipendenza, assicurare l'obbidienza e la protezione e
prevenire l'unificazione dei barbari» (22).
Come sua abitudine, Charles Krauthammer si esprime con ancor più crudezza: «L'America
ha vinto la guerra fredda, si è infilata in tasca la Polonia e la Repubblica
ceca, e dopo ha polverizzato la Serbia e l'Afghanistan. En passant, ha
dimostrato l'inesistenza dell'Europa» (23).
Questo disprezzo ha molto a che fare con le forti tensioni che scuotono le
relazioni trans-atlantiche dopo l'11 settembre.
La scelta imperiale condannerà gli Stati uniti a dedicare il periodo di
egemonia che gli resta - quale esso sia - a costruire muri intorno alla
cittadella occidentale. Come tutti gli imperi che l'hanno preceduta, l'America,
vero «estremo occidente», sarà assorbita, secondo l'espressione dello
scrittore sudafricano John Michael Coetzee, «da un unico pensiero: come non
finire, come non morire, come prolungare la propria era» (24).
note:
*Docente all'università di Parigi VIII e giornalista.
(1) Arthur Schlesinger Jr., «
Unilateralism in historic perspective «, in Understanding Unilateralism in US
foreign Policy, Riia, Londra, 2000, pp. 18-28.
(2) Charles William Maynes, «Two
blasts against unilateralism», in Understanding Unilateralism..., pp. 30-48.
(3) Citato da William Appleman
Williams, The Tragedy of American Diplomacy, Dell, New York, 1962, P. 26
(4) Citato da Howard K. Beale, Theodore
Roosevelt and the Rise of American to World Power, Johns Hopkins University
Press, Baltimora et Londra, 1989, capitolo 1.
(5) Howard K. Bearle, op.cit., pp 38 e
39 e 70-78.
(6) Citato da David Healy in US
Expansionism, the Imperialist Urge in the 1980's, The University of Wisconsin
Press, Madison Wisconsin, 1970, p. 46
(7) Citato in «It takes an empire say
several US thinker», The New York Times, 1¼ aprile 2002. Per la citazione del
1999, vedi «The Second American Century», Time Magazine, 27 dicembre 1999.
Vedi anche C. Krauthammer, «The Unipolar Moment», Foreign Affairs, New York,
1990.
(8) Citato in «It takes an empire»,
op. cit.
(9) Joseph S. Nye jr., The Paradox of
American Power, Oxford University Press, New York, 2002, p. 1. Ed. it. Il
paradosso del potere americano, Einaudi, 2002.
(10) Paul Kennedy, «The Greatest
Superpower Ever», New Perspectives Quarterly, Washington, inverno 2002.
(11) Henry Kissinger, Does America
Need a Foreign Policy, Simon & Schuster, New York, 2001, p. 19.
(12) Max Boot, «The Case for
American Empire», Weekly Standard, Washington D.C., 15 ottobre 2001, vol. 7, n°
5.
(13) Si legga Christian Science
Monitor, Boston, 26 aprile 2002.
Nel suo libro The End of Racism, pubblicato nel 1995, D'Souza afferma «che
esiste una gerarchia sociale della capacità razziali», questa gerarchia spiega
ad esempio gli alti tassi di criminalità all'interno della comunità
afro-americana degli Stati uniti.
(14) «The Future of War and the
American Military», Harvard Review, maggio-giugno 2002, volume 104, n° 5,
pagina 29.
(15) Michael Ignatieff, «Barbarians
at the gate?», New York Review of Books, 28 febbraio 2002, p. 4. Si legga
Pierre Conesa e Olivier Lepick «Washington smantella l'architettura
internazionale di sicurezza» Le Monde diplomatique/il manifesto, luglio 2002.
(16) Robert Kagan, «The Benevolent
Empire», Foreign Policy, Washington D.C., estate 1998.
(17) Howard K. Bearle, op.cit., p.
68.
(18) Sebastian Mallaby, «The
Reluctant Imperialist, Terrorism, Failed States, and the Case for American
Empire», Foreign Affairs, New York, marzo-aprile 2002, pp. 2 - 7.
(19) Cicerone, Sulle province
consolari, XIII, 32-35 e passim.
(20) Robert Kagan, «Power and
Weakness, Why Europe and the US see the world differently», Policy Review,
Washington, giugno-luglio 2002, n° 113.
(21) Michael Ignatieff, op.cit., p.4.
(22) Citato in Charles William Maynes,
op. cit., p. 46.
(23) Washington Post del 20 febbraio
2002.
(24) Estratto dal suo grande romanzo
Aspettando i barbari, Einaudi, 2000.
(Traduzione di M. D.)
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