Risvolti e retroscena del terrore creato ad arte dai signori della guerra. Ecco i sospetti denunciati da Fulvio Grimaldi durante la presentazione a Milano del suo video Chi vivrà Iraq!
Terrorismo
al servizio del farmabusiness
Ma
tutto questo non è una novità: se foste un po’ più attenti sapreste
che questi signori operano di conserva. Hanno sempre operato di conserva
per trarre profitto e tenerci sottomessi. La paura, dunque, come
infinita fonte di guadagno: dall’11 settembre in poi le vendite di
armi ad uso personale negli Stati Uniti sono lievitate del 70%.
E sebbene negli anni ’90 in tutti i paesi occidentali si sia
verificato un calo tangibile dei crimini in genere, la propaganda dei
mass-media con la centralità assillante che viene data alla cronaca
nera, ha creato uno stato di panico diffuso che fa incrementare le
vendite di sistemi di controllo e di sicurezza, di allarme e di
autodifesa.
Gli Stati Uniti sono maestri di questa sistematica proliferazione di
angosce pubbliche e private: a ridosso dell’attentato alle Torri sono
nate vere e proprie industrie
specializzate in produzione di sistemi di sopravvivenza anti-terrorismo.
E le guerre che l’Occidente ha combattuto nel nuovo millennio hanno
trovato ampio consenso in
un’opinione pubblica smarrita soprattutto grazie a questi timori
sociali.
Nata come paura del singolo –acritica paura dell’ipotetico immigrato
scippatore, dell’ipotetico sconosciuto stupratore, scassinatore,
maniaco-, nemici fantasmi d’una società sempre meno lucida per via
del battage pubblicitario somministrato in dosi massicce dalle
televisioni e dai giornali, la paura s’è estesa a livello nazionale
ed internazionale: angoscia che il ‘nostro’ mondo venga minacciato,
colpito, contaminato da ‘mondi altri’.
L’Italia è un paese chiuso e intimorito, che a causa di questa
paura accetta di partecipare ad operazioni di gendarmeria internazionale
e le definisce ‘umanitarie’ per ripulirsi la coscienza. Eppure la
nostra Costituzione, a cominciare dall’articolo
11 che dal governo D’Alema in poi sembra sia stato affisso
nei cessi di Palazzo Chigi, è invece una Costituzione di apertura e di
dialogo: l’Italia rifiuta la guerra come strumento di offesa alla
libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle
controversie internazionali, ricorda Grimaldi.
E non smette di spingere il pubblico all’esercizio del dubbio:
Diffidate dei nemici che i mass
media vi costruiscono su misura. Fate la tara su quel che vi raccontano:
ve lo dice uno che ha lavorato sedici anni per una cerchia di individui
che aveva come fine ultimo la criminalizzazione dei nemici: i nemici dei
padroni, naturalmente. Fate la tara anche su quel che vi
raccontano oggi sull’Iraq.
Ricordatevi quel che vi hanno raccontato per giustificare i
bombardamenti sulla Jugoslavia. Non vedevate gli ospedali, le scuole,
gli ospizi, le case dei civili sbriciolate.
Lo stesso è accaduto con l’Afghanistan: non vi hanno mostrato i
pastori, i contadini sotto le bombe.
E allo stesso modo non vi fanno vedere gli iracheni. Non li conoscete,
non sapete cosa pensano, cosa fanno, come vivono. Perché conoscendoli
rischiereste di stabilire un rapporto empatico.
Potreste ribellarvi alle ingiustizie e alle diffamazioni che questi
popoli subiscono. Potreste diventare sempre più convinti di una verità
differente da quella ufficiale e cominciare a sostenere la causa della
pace.
La proiezione del video-reportage, realizzato in più riprese nel corso
degli ultimi anni, coglie impreparato un pubblico non più avvezzo alla
visione di immagini prive di effetti ‘troppo speciali’ e di
dolcificanti emotivi e narcotici politici.
I lavori in video di Fulvio Grimaldi (Popoli di troppo, Serbi da morire,
Jugoslavia/Il popolo invisibile, per citarne alcuni) hanno sempre la
consistenza fondata della realtà: la gente nelle scuole, nelle strade,
nelle case, allo stadio, nelle fabbriche, nei musei, nelle università e
nei mercati dell’Iraq.
E’ la vita quotidiana che –veduta senza il filtro della propaganda-
non appare più incivile come è di rigore far credere per dare avvio a
nuovi bombardamenti. La storia di un’antica civiltà fiorita sul Tigri
e l’Eufrate si legge nei volti e nei luoghi che Grimaldi riprende con
grande semplicità.
Le vicende di un Iraq scomodo, “modello
sociale che impensieriva l’imperialismo” per usare le parole del
giornalista che guidano durante la visione del documentario, l’inferno
di una guerra decennale e delle sanzioni imposte che hanno causato oltre
un milione e mezzo di morti civili, le interviste a Ramsey
Clark e Padre
Benjamin, la presenza dei volontari di Un
ponte per Baghdad fanno del video di Fulvio Grimaldi una
lezione pratica di storia contemporanea.
E le visite agli ospedali di Bassora e Baghdad, che mostrano le vittime
dell’uranio impoverito e delle patologie più elementari (dissenteria,
colera, denutrizione) causate dall’embargo che agisce come soluzione
finale hanno, della storia moderna e della realtà, tutto il peso. Un
peso che le nostre televisioni ‘democratiche’ non sembrano disposte
a sopportare.
(sabato 7 dicembre 2002)
Le grandi manovre.......della finanza.
by agapito@robles Friday February 07, 2003 at 01:48 PM
Volete sapere perchè Berlusconi è schierato (per non dire prono) in maniera aprioristica con gli States (o meglio, con la famiglia Bush)?
Semplice.
Mediobanca (Maranghi- E. Doris - Berlusconi) e Carlyle (Bush
senior) vorrebbero approfittare del "disordine" giuridico-istituzionale
causato dalla guerra e dalle spossanti liti interne, per creare un nuovo
oligopolio finaziario transnazionale (Usa - Ita) spostando gli equilibri
geopolitici.
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MEDIOBANCA: FT, STUDIA MAXI-FONDO DA 1 MILIARDO DI EURO CON CARLYLE
MA RESTANO DA SUPERARE OSTACOLI NORMATIVI
Roma, 7 feb. (Adnkronos) - Carlyle, il gigante statunitense di private equity, è in trattative con Mediobanca per lanciare un maxi-fondo da 1 miliardo di euro. Lo riferisce il Financial Times secondo il quale se l'accordo andasse in porto, sarebbe la prima volta che una società di private equity avrà raccolto una somma così ingente da una singola istituzione["Silvio vuole dimostrarsi fedele per non farsi scappare l'affare, tutto qui!Dell'affaire Iraq, non gliene può fregà de meno!"].
http://www.adnkronos.com/IGNDispacci/20030207/ADN20030207114254.htm
http://www.wallstreetitalia.com/articolo.asp?ART_ID=145732
Di Arnold S. Trebach
Professore Emerito American University
Anche i migliori paesi nel mondo hanno il loro punto debole. Uno
dei peggiori punti deboli del mio bel paese è la nostra
dedizione alla guerra alle droghe. Uno dei peggiori aspetti
della guerra statunitense alle droghe è il supporto al
trattamento "Toughlove" [letteralmente Amore violento,
ndt] per gli abusi di droghe. Il trattamento Toughlove enfatizza
i metodi duri verso i giovani tossicodipendenti.
Una delle peggiori organizzazioni che
impiega le misure violente del Toughlove verso i giovani è la
Straight, Inc. Questa organizzazione, nata negli anni settanta,
è cresciuta sino a venti sedi in tutti gli Stati uniti. Le
caratteristiche essenziali della Straight includono, tra le
tante, la seguenti: sospetta incarcerazione forzata di giovani
consumatori e in abuso di droghe, spesso in seguito alla
richiesta di genitori esasperati. La Straight è inoltre
accusata di: aver trattenuto giovani in regime di isolamento dal
mondo esterno per mesi o anni; aver ridotto i contatti con
genitori o altri parenti prossimi, eccetto in particolari
circostanze controllate; aver obbligato questi prigionieri a
sedere in una grande stanza per dieci, dodici ore e anche più,
ogni giorno obbligandoli ad ascoltare letture o confessioni di
colpevolezza l'uno dell'altro; aver utilizzato il cibo come arma
di controllo; aver provveduto loro alla minima quantità di
cibo, con il risultato che molti dei giovani prigionieri hanno
perso sensibilmente peso; la possibilità di utilizzare il bagno
basata sugli schiribizzi del momento dello staff del Toughlove,
il che significa che spesso molti dei giovani si sedevano sui
loro stessi escrementi; l'uso della forza fisica per bloccare
coloro che obiettavano a questo brutale trattamento o che
cercavano di scappare. Una ventina di giovani si sono procurati
tagli su tutto il corpo o hanno tentato il suicidio senza che
alcuno vi riuscisse, per quanto ne so, probabilmente perché
sorvegliati costantemente. Tragicamente, decine di loro sono
riusciti nei loro intenti auto-distruttivi, dopo aver lasciato i
centri.
Numerose cause civili e procedimenti
penali sono stati condotti nei confronti di alcune persone della
Straight di molte sedi negli Stati uniti. Sono state decine,
anche centinaia le vicende raccontate sulla carta stampata e nei
media televisivi riguardo a questi orribili abusi da parte della
Straight. Io stesso ho scritto molto riguardo agli Straight e
uno dei loro prigionieri, il giovane Fred Collins, in uno dei
miei libri sulle politiche riguardanti le droghe, "La
grande guerra alla droga" [The great drug war], pubblicata
nel 1987 dalla Mac millian. Collins ha testimoniato in una corte
federale gli abusi che lui stesso ha subito e ottenne 220mila
dollari di risarcimento nel 1983. Altre giovani vittime hanno
ricevuto anche somme maggiori vincendo cause civili, dalla
Straight o altre organizzazioni ad essa correlate.
Per anni ho lavorato per chiudere la
Straight. L'ho fatto come professore e scrittore indipendente e
come fondatore della Drug Policy foundation, che ha contato
20mila iscritti negli Stati uniti e in altri paesi. Così hanno
fatto molte altre persone, molti dei quali, come Wes Fager,
erano genitori di reclusi dagli Straight, altri, come Richard
Bradbury, avevano "soggiornato" dagli Straight. Per i
primi anni ignoravo l'esistenza di Melvin e Betty Sembler. Tutto
cambiò durante una visita a Melbourne, in Australia, nel 1989,
quando fui invitato ad una conferenza internazionale sulla
droga. Un giorno durante la conferenza, io ero stato inserito
come oratore nel pannello che riguardava le riforme delle leggi
sulle droghe, con una maggioranza di oratori australiani, ma
anche esperti provenienti da tutto il mondo. Uno degli oratori
era Donald Ian McDonald, principale consigliere in materia del
presidente Reagan. Quando arrivò il suo turno di parlare,
McDonald proruppe in un attacco personale nei miei confronti: la
mia presenza lì era una vergogna. Rimasi di stucco e quando
salii io sul podio per parlare, dissi più o meno così:
"Sono grato per questo attacco:lei, dottor McDonald siede
al fianco destro del presidente Reagan e lei lo ha consigliato
sulle politiche nazionali e internazionali sulla lotta alla
droga. Lei dimostra, grazie a questo attacco, meglio di quanto
avrei potuto fare io, come sia carico di rabbia il cuore della
politica statunitense sulla droga. E' comunque una vergogna che
lei si sia comportato così di fronte a tanta gente e davanti
all'ambasciatore statunitense e sua moglie, seduti nelle prime
file". Non avevo mai incontrato Mel Sembler, ma mi era
stato indicato, seduto vicino alla moglie, seduto in prima fila.
L'oratore principale di quella serata in un hotel a cinque
stelle non era altri che l'Onorabile Melvin Sembler. Quando
prese la parola, fu molto cortese e ringraziò "il dottor
McDonald e il signor Trebach" per la loro presenza, poiché,
disse, era interessato ad ascoltare tutti i punti di vista su
questo argomento. Quindi disse una cosa che scioccò me e mia
moglie, Marj Rosner, e ci fece saltare sulla sedia. Disse parole
quali: "conosco un po' il problema della politica sulle
droghe e sui trattamenti poiché molti anni fa, con altre otto
persone a St. Petesbourg, in Florida, ho fondato
un'organizzazione, chiamata Straight, Inc., che ha aiutato molti
ragazzi con problemi di droga". Quindi iniziò a spiegare
come funzionava il programma di recupero, facendolo sembrare
meraviglioso. Mentre continuava, io e mia moglie non riuscivamo
a credere alle nostre orecchie. Davanti ad una platea
internazionale di funzionari ed esperti, l'ambasciatore
americano in Australia stava sostenendo che uno dei programmi
peggiori di riabilitazione era invece uno dei migliori, senza
nemmeno un cenno a tutti i processi persi e a carico.
Mentre io e mia moglie commentavamo sempre
più animatamente, le altre persone al nostro tavolo,
soprattutto funzionari stranieri, gentilmente ci chiesero cosa
ci avesse turbato tanto. Spiegammo brevemente e un alto
ufficiale olandese ci rispose: "Ah, si, conosco il
programma: la gioventù hitleriana". Durante i giorni
seguenti, feci alcune apparizioni sulle radio e televisioni
australiane, tra cui il Today Show, avvertendo di non seguire i
consigli distruttivi dei Sembler sulle politiche contro le
droghe, allo stesso modo in cui ora avverto gli italiani.
Fortunatamente, le politiche sulle droghe in Australia sono
indirizzate verso una direzione più salutare. Negli anni
seguenti a quel traumatico incidente a Melbourne, sono felice di
poter dire che l'organizzazione originale chiamata Straight,
Inc. è stata obbligata a chiudere sotto il diluvio di cause
civili e nuove rivelazioni. Questo per quanto riguarda le buone
notizie.
Ho scoperto che il dottor McDonald era stato il direttore delle
ricerche della Straight prima di diventare consigliere di Reagan
alla Casa bianca. Numerosi altri nuovi metodi sono nati sul
modello della Straight, continuando così le sue pratiche
distruttive. Mel e Betty Sembler continuano ad essere i maggiori
leaders americani di politiche sulle droghe, ottenendo supporto
non solo da dottori in vista come il dottor McDonald, ma anche
da politici, tra cui la famiglia Bush. I Bush hanno fondato
numerose nuove organizzazioni per la riabilitazione, in
particolare la Drug-Free America Foundation, Inc., che appare
come il diretto erede della Straight.
I Sembler tengono in pugno importanti
posizioni politiche nella struttura di potere repubblicana,
riguardo alle politiche sulle droghe. Il sito web del Comitato
repubblicano nazionale, l'RNC, il gruppo dominante nella sfera
repubblicana, e lo stesso signor Sembler riassumono su internet
altri fatti molto significativi: rivelano che Sembler è la
mente dietro al grande successo di una catena di più di
cinquanta shopping centers, funzionario del Comitato nazionale
per la finanza e la direzione che appoggiava la campagna
elettorale per Gorge Bush Presidente nel 1998, il Direttore alla
finanza per l'insediamento a presidente di Bush padre nel 1989 e
un funzionario del museo sull'Olocausto. Ma, probabilmente la
cosa più importante al momento è che il signor Sembler è il
maggior finanziatore del partito repubblicano: direttore delle
finanze dell'RNC. Il sito web del Comitato repubblicano
nazionale orgogliosamente sottolinea che "nel 1976, Sembler
e la moglie fondarono la Straight, un nuovo programma di
riabilitazione dalla droga. Nei suoi diciassette anni di
esistenza, la Straight ha promosso più di 12mila ragazzi in
tutto il mondo grazie al suo programma".
Quindi, i Sembler uniscono un forte potere
economico [che serve per comprare gli incarichi da ambasciatore]
al dominante Partito repubblicano e all'impegno ideologico verso
alcuni dei peggiori dogmi mai creati nella storia degli Stati
uniti, il mio paese, che [chiedo scusa a coloro che non guardano
questo nobile paese con i miei occhi] io credo essere la grande
speranza del mondo. Appare ancora peggiore l'idea che vogliano
esportare questo dogma repressivo in altri paesi nel mondo, come
l'Italia. A coloro che si oppongono ai programmi della Straight,
che abusano di ragazzi nel nome della riabilitazione dalle
droghe, Betty Sembler ha risposto che lei e il marito non hanno
nulla da nascondere e che coloro che li criticano cercano di
legalizzare le droghe. Questa è una falsità ed è fuorviante,
perché bisogna soppesare separatamente le critiche. Primo,
secondo la mia personale opinione, il bisogno di trattamenti
civili e umani deve essere la prima cosa. L'alcool è legale
praticamente ovunque e ancora c'è bisogno dello stesso
trattamento positivo di quello per i casi di eroina, che invece
è quasi ovunque illegale. Secondo, anche se fossero rese legali
tutte le droghe, una posizione che io appoggio fortemente, la
necessità di un trattamento umano nei programmi riabilitativi
continuerebbe. In altre parole, il mio impegno, a livello
mondiale, per la legalizzazione delle droghe, non significa
incoraggiare l'uso delle droghe, né significa che io mi astenga
dalla responsabilità di lavorare per metodi efficaci di
riabilitazione. I Sembler non comprendono queste concezioni.
Come molti "guerrieri" contro la droga negli Stati
uniti, così come in Italia, si oppongono fortemente alla
legalizzazione, approvando metodi brutali e incivili per
riabilitare consumatori e dipendenti dalle droghe. Sembrano non
capire che la crudeltà e l'estrema irrazionalità fanno parte
sia delle leggi proibizioniste, sia dei metodi repressivi nei
trattamenti sulle droghe. D'altronde, nessuno dei due metodi
funziona nella vita reale.
Il dottor Arnold S.Trebach ha alle spalle
una lunga esperienza in trattamenti e politica sulle droghe ed
è stimato ed apprezzato in tutto il mondo. Ha scritto numerosi
libri e articoli. Fondatore ed ex presidente della Drug policy
foundation, ha fatto parte del Partito radicale transnazionale.
Sito web www.trebach.com
visitate anche il sito di Wesley Fager www.thestraights.com
[traduzione di Carlo
Dutto] http://www.clorofilla.it/articolo.asp?articolo=2590
Valerio Ricci
L'Italia
e il grande
gioco asiatico
http://www.asslimes.com/documenti/mondialismo/
l'italia%20e%20il%20grande%20gioco%20asiatico.htm
Il precedente della guerra del
golfo
Obiettivi reali e obiettivi dichiarati nella guerra moderna
L'impero marittimo americano ed il controllo dell'Hearthland
La nuova via della droga. La battaglia degli oleodotti
L'importanza di una politica di potenza italiana ed europea.
Prima di ordinare ai propri generali l’invasione del Kuwait, Saddam Hussein ebbe un lungo colloquio con l’ambasciatrice americana a Bagdad. La guerra con l’Iran era finita da pochi anni e gli irakeni credevano di poter riscuotere i crediti internazionali maturati in precedenza. Gli USA in effetti, preferendo l’ideologia Baath del laico Irak alla dottrina Sharia della teocrazia di Teheran, in pochi anni avevano garantito a Saddam Hussein un potenziamento militare straordinario e l’impunità per l’enorme utilizzo di gas tossici contro gli iraniani. Nel 1991, forte di un appoggio occidentale pluridecennale, il dittatore di Bagdad era convinto di poter occupare il piccolo ed opulento emirato confinante rischiando al massino una condanna formale dell’ONU o, al limite, un conflitto di bassa intensità. L’ambasciatrice USA, avendo ricevuto istruzioni tanto generiche quanto sospette da Washington, sembrò confermare le impressioni di Saddam Hussein. L’invasione del Kuwait, invece, portò l’Irak al massacro. Gli USA, bandendo in fretta la crociata umanitaria, scatenarono l’inferno contro Bagdad. La guerra durò circa un un e mezzo ed il Kuwait venne “liberato” con estrema facilità. Bush senior tuttavia, invece di proseguire il conflitto sino alla capitale irakena, fatto che avrebbe comportato la destituzione di Saddam Hussein, preferì porre fine alle ostilità. L’obiettivo dichiarato ovvero la realizzazione di un’operazione di polizia internazionale era stato centrato. Ma, soprattutto, venne raggiunto l’obiettivo reale dell’intervento militare americano nel golfo. La guerra aveva permesso a Washington, per la prima volta nella storia, di imporre un controllo militare diretto sui giacimenti petroliferi del golfo persico. Gli americani, escludendo clamorosamente il loro tradizionale partner mediorientale di Tel Aviv, avevano allestito a tale scopo una coalizione internazionale forte del sostegno di numerosi paesi arabi più o meno moderati: Arabia Saudita, Egitto, Marocco, Oman, Qatar etc. Gli USA, in questo modo, poterono stanziare per la prima volta le proprie truppe in Arabia Saudita. Oggi, a più di dieci anni dal conflitto, sono ancora lì. I nuovi equilibri determinatisi a loro favore spiegano perché gli americani abbiano imposto una relativa pacificazione dell’area del golfo, minacciata ‘potenzialmente’ dalla presenza del dittatore di Bagdad ancora solidamente al potere. E proprio la ‘minaccia” permanente irakena a giustificare oggi le basi militari americane in Arabia Saudita. La pacificazione del golfo ha trovato sin dall’inizio due grandi avversari i cui interessi attuali da una parte confliggono e dall’altra convergono. Se il fondamentalismo islamico, infatti, considera la liberazione della Mecca un obiettivo prioritario, il nazionalismo israeliano vede nella “pace” americana in medio oriente un ostacolo oggettivo alla sua politica di espansione nei territori palestinesi. Il precedente significativo della guerra del golfo consente di evidenziare un aspetto peculiare della guerra moderna, a suo modo un segno eloquente dei tempi, per cui nei conflitti militari l’obiettivo reale non coincide mai con quello ufficialmente dichiarato. Quest’ultimo assume un’importanza del tutto relativa. Le stragi dell’11 settembre hanno motivato la reazione militare anglo-americana contro il regime talebano di Kabul, colpevole di aver protetto Bin Laden e la sua multinazionale del terrore. Se però la guerra del golfo costituì l’effetto evidente della strategia per il medio oriente concepita da Bush senior e dalle lobbies che lo sostenevano, la genesi dell’attuale crisi mondiale appare molto più complessa, chiamando in causa una pluralità di soggetti e di interessi contrapposti, anche all’interno dello stesso mondo occidentale, non facili da decifrare dall’esterno. L’abbattimento di un aereo siberiano da parte della contraerea ucraina e la tragedia del 12 novembre, in tal senso, hanno posto interrogativi inquietanti. Quello che rileva in tale sede, tuttavia, è l’individuazione delle ragioni reali dell’intervento militare anglo-americano nel cuore dell’Asia. Anche in tal caso la coalizione planetaria allestita in grande fretta è nata con l’obiettivo dichiarato di realizzare un’opera di polizia internazionale, consistente in concreto nella “liberazione” dell’Afghanistan e nella cattura del terrorista saudita. Ma l’obiettivo reale è di ben altra natura. L’Afghanistan, stretto tra l’Asia centrale e le regioni che si affacciano sull’oceano indiano, è situato in una regione di estrema rilevanza geopolitica, soprattutto per gli USA che costituiscono per definizione un impero essenzialmente marittimo. La talassocrazia statunitense si estende da sempre lungo l’Oceano Atlantico trovando nella massa continentale centroasiatica, ad essa tradizionalmente estranea, un naturale bilanciamento del suo potere. Questa regione, denominata Hearthland dal geopolitico inglese sir Halford Mackinder, costituirebbe a livello strategico il “perno” del mondo. Mackinder sosteneva che in linea teorica il controllo dell’Hearthland consente il controllo dell’isola del mondo (l’insieme della massa continentale eurasiatica e dell’Africa) mentre il controllo di quest’ultima permette a sua volta il dominio sul mondo stesso. Se gli americani, già dominatori degli oceani, arrivassero in un futuro non immediato a controllare l’Hearthland, si determinerebbe a loro favore una situazione di egemonia mai raggiunta sin ora. La stampa iraniana vicina all’Ayatollah Khamenei, del resto, ha interpretato le manovre USA nel cuore dell’Asia come l’effetto di una nuova strategia americana finalizzata nel lungo periodo alla definizione di un “mondo unipolare”. Prima dei fatti dell’11 settembre le prospettive geopolitiche degli USA erano assai differenti e l’unipolarismo a stelle e strisce sembrava un’ipotesi impraticabile. La grave crisi economica del gigante economico americano, la graduale crescita dei partners occidentali, l’irrompere anche a livello economico di potenze extraeuropee dotate di risorse nucleari, si erano saldate ad una forte tendenza neoisolazionista affermatasi nello stesso impero americano, lasciando presupporre un futuro scandito da un inedito policentrismo geopolitico. Questa tendenza neoisolazionista ha trovato però una forte opposizione sia all’interno degli stessi potentati USA sia negli alleati storici degli americani in medio oriente, gli israeliani, in rotta con la famiglia Bush e le sue lobbies di riferimento dai tempi della guerra del golfo. L’abbattimento delle torri gemelle e l’attacco al Pentagono hanno generato una crisi mondiale talmente forte da mischiare completamente tutte le carte in tavola. La linea Huntington, fondata sulla formula del conflitto tra civiltà e rigettata dall’amministrazione Bush, torna prepotentemente di attualità. Una presenza militare nel cuore dell’Asia, sino a ieri, sembrava impensabile. Oggi le divisioni di montagna dell’esercito USA, giustificate dalla necessità di intervenire rapidamente in Afghanistan, sono stanziate presso le basi militari uzbeke, a metà strada tra i giacimenti petroliferi del Caspio e le regioni occidentali della Cina. L'Uzbekistan, governato da un regime autoritario in lotta con il fondamentalismo islamico, è uno dei paesi dell'area centroasiatica più ricco di risorse energetiche al punto di meritare citazioni particolari, certo non casuali, nell'ultima fatica editoriale di George Soros. Washington ha precisato da subito che si sarebbe trattato di una guerra molto lunga (di cui la liberazione di Kabul ha rappresentato solo la prima fase) lasciando intendere una presenza continuativa del proprio contingente militare nella repubblica postsovietica. Gli americani, in questo modo, hanno aperto la partita per il controllo dell'Hearthland che si giocherà in modo decisivo nei prossimi anni, muovendo innanzitutto dall'attuale e non agevole gestione del governo afgano postalebano del presidente Rabbani. Questo governo, in ogni caso, non potrà prescindere dal sostegno determinante dell'etnia di maggioranza pashtun. L'unica attività commerciale svolta in Afghanistan negli ultimi decenni è stata quella della droga: Kabul è il principale produttore mondiale di oppio. Il 90% dell'eroina presente nel mercato europeo esce da laboratori afgani e pakistani. La lotta internazionale alla produzione e al traffico di droga, negli ultimi anni, ha assunto tratti molto spesso grotteschi tali da suscitare sospetti negli osservatori più maliziosi. Lo United Nations Drug Control Program, diretto da Pino Arlacchi, già nel 1997 iniziò un'opera di pressione verso il regime afgano per indurlo a rinunciare alla produzione di oppio, proponendo in alternativa la conversione dei campi in coltivazioni di mandorle e albicocche. A tale scopo Kabul percepì un finanziamento di 16 milioni di dollari. Gli effetti dell'indulgente politica dell'UNDCP furono disastrosi perché aumentò sino a garantire, nel 1999, un raccolto annuo più che duplicato rispetto al precedente. Il solo Afghanistan in quell'anno immagazzinava 4691 tonnellate di oppio rispetto alle 6000 complessive mondiali. Lo United Nations Drug Control Program aveva fallito clamorosamente e qualcuno si interrogò sulla singolare fretta di Kabul nell'accumulare quantità di oppio che eccedevano, di gran lunga, la "domanda" del mercato europeo della droga. Nel 2000 la produzione continuava a marciare spedita quando il mullah Omar emise un decreto di divieto assoluto della coltivazione di oppio. Sul finire della primavera del 2001, quasi d'incanto, i satelliti russi ed americani attestavano che le coltivazioni dell'oppio erano state eliminate da tutto il territorio allora controllato dai talebani, pari al 90-95% dell'Afghanistan. Le coltivazioni permanevano solo nelle zone come Badakshan che già prima della guerra erano controllate dall'alleanza del nord. Malgrado i toni trionfalistici assunti da qualche media, tuttavia, il problema droga in Afghanistan non solo permaneva, ma assunse toni ancora più preoccupanti. L'oppio immagazzinato negli ultimi anni, secondo i dati forniti dalla Conferenza Interpool già nel 2000, consente all'Afghanistan di rifornire i tossicodipendenti europei per i prossimi tre anni. I bombardamenti anglo-americani avrebbero reso impossibile la coltivazione dell'oppio e gli osservatori più smaliziati riflettono sulla sorprendente lungimiranza dimostrata dai talebani nella programmazione della produzione che, tra l'altro, ha comportato un aumento vertiginoso dei prezzi della droga acquistata in territorio afgano. Questo rialzo dei prezzi è pari al mille per cento. Le ultime novità del mercato dell'eroina, inoltre, riguardano anche le rotte del traffico europeo. Un elemento di novità ha messo in crisi la tradizionale rotta balcanica che, muovendo dall'Afghanistan, supera l'Iran, passa la Turchia e attraverso il corridoio kosovaro raggiunge l'Europa. L'Iran infatti, preoccupato dall'aumento straordinario del consumo di oppio nel proprio territorio, ha intrapreso una lotta reale al traffico di eroina arrivando ad intercettare, da solo, circa la metà dell'eroina sequestrata in tutto il mondo. Questo ha indotto i narcotrafficanti ad impegnare una nuova rotta, quella baltica. Essa descrive una traiettoria che partendo dall'Afghanistan taglia le repubbliche postsovietiche, raggiunge Mosca e di lì, muovendo verso il Baltico, scende poi nel resto d'Europa. Nel 2000 l'Interpool annunciava il crescente ruolo acquisito dalla nuova rotta baltica che oggi si dimostra perfettamente alternativa a quella balcanica. Il prezzo dell'eroina sale vertiginosamente durante il tragitto lungo questi paesi privi, sino a ieri, della presenza militare americana. Essa, al confine afgano costa dai 2 ai 4 mila dollari al chilo, in Kirghizistan 7 mila mentre a Mosca balza a 50 mila. Nel mercato europeo, da ultimo, può arrivare ad un prezzo pari a 100 mila dollari al chilo. Le necessità logistiche della guerra all’Afghanistan hanno consentito alle truppe americane di trovarsi di nuovo in un territorio che va ad intrecciarsi con le rotte dei trafficanti di eroina in viaggio verso l’Europa. Persino quotidiani come il “Corriere della Sera”, al di sopra di ogni sospetto di anti-americanismo preconcetto, hanno raccontato la “singolare” vicenda del Generale Dostum, militare dell’Alleanza del nord notoriamente legato alla CIA. Dostum, ricercato dai taliban, ma inviso anche all’alleato Massud (ucciso proprio pochi giorni prima delle stragi americane), per alcuni anni si nascose tra l’Iran e la Turchia. Dopo la tragedia dell’11 settembre è tornato in Afghanistan, puntando direttamente alla liberazione del suo vecchio “feudo” Mazar-i-Sharif. Raggiunto il suo obiettivo verso la metà dello scorso novembre, il Generale Dostum ha trovato pressoché intatti gli hangar della sua linea aerea privata, utilizzata in passato per esportare l’oppio a Samarcanda. Ad inizio degli anni novanta sia la CIA sia l’ISI, il servizio segreto pakistano, iniziarono a lavorare in Afghanistan nel contesto di un quadro operativo che consentì successivamente l’ascesa al potere dei talebani. L'obiettivo era quello di porre le condizioni idonee alla realizzazione, in un futuro non immediato, di un oleodotto e di un gasdotto che, muovendo dalle repubbliche centroasiatiche postsovietiche, attraverso l’Afghanistan ed il Pakistan, raggiungessero il mare arabico. L’esecuzione di un questo progetto avrebbe determinato una situazione oggettivamente sfavorevole agli interessi russi ed iraniani. Le grandi compagnie anglo-americane, consapevoli delle enormi risorse di petrolio e di gas naturali offerte dalle regioni che si affacciano sul Caspio, da tempo studiano per questo motivo strategie di intervento nel cuore dell’Asia. Le ricerche americane del resto, effettuate in Alaska e nelle terre del nord, hanno fornito risultati deludenti, accentuando ulteriormente l’importanza strategica dell’area centroasiatica in termini di potenziale energetico. Nel frattempo è entrato in funzione l’oleodotto Tangiz-Novorossijk che, saldando il Kazakistan alle coste russe del Mar Nero, ha innescato un business internazionale di proporzioni gigantesche. Questo oleodotto esalta il ruolo geoeconomico della Russia e potrebbe determinare per l’Europa, da sempre sottoposta al “ricatto” del petrolio, una svolta di portata epocale. Nel maggio scorso l’ENI, giocando d’anticipo, ha acquisito i diritti di sfruttamento dei giacimenti della regione russa di Astrakhan che si affaccia proprio sui pozzi petroliferi di Tangiz. Un altro progetto di oleodotto, altrettanto rilevante sotto il profilo economico, è quello di Kashagan-Kharg Island. Esso prevede il collegamento del Caspio con le coste iraniane. Il 23 luglio scorso del resto, proprio nel Caspio, Londra e Teheran avevano rischiato un serio incidente diplomatico: la marina militare iraniana respinse verso la costa azera una nave della British Petroleum che stava effettuando prospezioni ritenute sospette. Oggi la crociata “umanitaria” nel cuore dell’Asia consente alle multinazionali anglo-americane di tornare in gioco nella partita del pètrolio e del gas, determinando un nuovo rimescolamento delle carte. I progetti di oleodotti e gasdotti diretti sia verso le coste sia verso l’interno del Pakistan, tornano prepotentemente di attualità. E infatti evidente che chiunque voglia recitare un ruolo di primo piano nella nuova epoca, sorta con la tragedia dell’11 settembre, non può essere estromesso dal “grande gioco” asiatico. Si deve considerare, a tale proposito, che la situazione politica dei paesi adiacenti al Caspio è fortemente instabile. Questo lascia supporre che le grandi potenze mondiali, formalmente concordi nell’azione di liberazione di Kabul, hanno avviato dietro le quinte una contesa a livello d'intelligence che troverà nelle numerose conflittualità etniche presenti nella regione uno dei suoi punti chiave. Gli USA hanno fatto la prima mossa. La presenza militare anglo-americana in Uzbekistan infatti, giustificata dalle necessità logistiche della guerra contro il regime taliban, ha sancito il nuovo orientamento di politica internazionale del regime di Tashkent. Dopo una continua e a volte convulsa oscillazione tra Mosca e Washington., il presidente Karimov ha posto le basi per una relazione stretta e duratura con gli americani.
Tratto da orion n° 206
CIA:
LA MADRINA
DELLA COCAINA E DELL’EROINA
Crack e CIA: Intervista a Gary Webb
«Revolutionary Worker» – Secondo lei, perché il suo esposto ha suscitato tanto clamore? Che cosa ha davvero attirato l’attenzione della gente e inquietato a tal punto il governo?
È interessante, perché all’inizio della sua inchiesta lei insisteva da un lato sulle migliaia di giovani neri condannati a lunghe pene detentive per aver venduto cocaina e dall’altro sull’assenza di questa droga nel mercato delle comunità nere finché i nicaraguensi della Contra, sostenuti dalla CIA, non la fecero arrivare fino a South-Central, L.A.
Personalmente, sono convinto che si tratti semplicemente di una questione di tempo. Ricordate, nella stessa epoca, in Colombia si formavano i cartelli. Di colpo la cocaina sparì dalla circolazione. I volumi si gonfiarono, i prezzi calarono. Penso perciò che abbiamo trovato la spiegazione. Prima dell’inizio degli anni Ottanta, costava cara per tutti. Con la nascita dei cartelli, i prezzi crollarono perché la produzione era in aumento. Cosa che comunque non spiega ancora come mai se ne trovasse a South-Central. Ciò che noi abbiamo spiegato è come questa cocaina a buon mercato sia arrivata a South-Central, attraverso l’intermediazione del cartello legato alla Contra su cui ho condotto l’inchiesta.
Che cosa ha appreso sulla relazione tra il cartello e la proliferazione del crack nella comunità nera?
Ecco! Il know-how per la fabbricazione del crack era nell’aria già da un po’. Già dalla fine degli anni Settanta esistevano qua e là ricette sul modo di convertire la polvere in crack, scaldandola con della soda. L’unico problema era che, non essendoci abbastanza cocaina, risultava troppo caro. Quando si è cominciato a importare cocaina a buon mercato in quantità, chi sa come produrre il crack ha di colpo l’opportunità per farlo. È una materia prima a tutti gli effetti: costoro hanno fornito la materia prima di ciò che è divenuto il problema del crack. Eccola, la relazione. Non sto dicendo che la CIA ha inventato il crack, o che la Contra l’ha fatto arrivare. Essi hanno soltanto immesso la polvere sul mercato, ma i clienti della strada sapevano come trasformarla in crack pur non avendo mai potuto farlo, in mancanza delle quantità necessarie.
Una delle cose che lei ha rivelato, è il volume di cocaina che di colpo si rende disponibile.
L’uomo alla testa di questo cartello, Norwin Meneses, era uno dei più grossi trafficanti di cocaina in America latina. Egli trattava direttamente con gli altri cartelli; aveva un accesso illimitato alla cocaina, ed era capace di farne entrare tonnellate nei vari Paesi illegalmente. Se volete crearvi un mercato a Los Angeles, vi conviene averne molta, di roba.
Che cosa ha saputo del modo in cui questi personaggi hanno potuto far entrare tanta cocaina negli Stati Uniti?
Avendo molti mezzi
a disposizione, cambiavano i percorsi ogni volta che ne veniva
scoperto uno o che una maglia veniva localizzata. Potevano far
arrivare la coca in auto o in camion. All’inizio degli anni
Ottanta, si servivano dei cargo colombiani, che navigavano lungo le
coste degli Stati Uniti. E questi cargo facevano scalo a Los
Angeles, a San Francisco, a Portland, a Seattle, giusto il tempo per
attraccare e scaricare. La cosa più interessante è quando hanno
incominciato a utilizzare aerei dell’aviazione militare
salvadoregna, verso il 1984-85. Esisteva una base aerea in Salvador,
che era utilizzata per i rifornimenti ai Contras. La cocaina era
caricata sugli aerei salvadoregni fino a una base aerea nel Texas,
dove veniva scaricata, per essere indirizzata altrove.
E se voi prestate attenzione a ciò che ha scoperto la commissione
Kerry, istituita dal Senato negli anni Ottanta, troverete
testimonianze secondo le quali aerei carichi di droga atterravano in
una base aerea militare in Florida. Quale miglior modo di proteggere
una partita di coca che farla trasportare da aerei militari,
frammista a materiale bellico? Nessuno sospetta di nulla. Esisteva
un regolamento doganale il quale precisava che certi voli non
dovevano essere sottoposti ad alcun controllo, trattandosi di voli
della CIA. Si hanno forti motivi di ritenere che siano stati proprio
quelli con cui viaggiava la cocaina.
Ha un’idea dei quantitativi in questione?
L’avvocato di un trafficante mi ha rivelato che non erano rare le spedizioni superiori alla tonnellata. Avevano a disposizione di grossi aerei da trasporto utilizzati per l’invio degli aiuti umanitari alla Contra; cosa che sembrerebbe coinvolgere il programma nhao sotto il diretto controllo del Dipartimento di Stato. Di che programma si trattava? Del Nicaraguan Humanitarian Assistance Office (Ufficio per l’Assistenza Umanitaria al Nicaragua), istituito per distribuire 27 milioni di dollari in aiuti umanitari, dopo che il Congresso aveva votato la chiusura dei crediti militari. L’amministrazione Reagan tergiversò e mise in piedi l’nhao, i cui aerei furono adoperati per le cosiddette spedizioni varie. Forniture militari e non. Inoltre, l’avvocato di Danilo Blandon mi ha spiegato che per il viaggio di ritorno, dopo aver consegnato le forniture, ritornavano negli Stati Uniti con carichi di diverse tonnellate. Niente male: in un C-130 di cocaina ce ne sta un bel po’!
E quanta gente doveva tenere gli occhi ben chiusi quando queste partite di coca venivano scaricate nelle basi militari americane? Come si distribuiva?
Non credo che ciò avvenisse alla luce del sole. La coca era generalmente impacchettata in coperte militari imbottite color kaki. Quando si comincia a scaricare un aereo militare pieno zeppo di equipaggiamenti e si vedono coperte militari imbottite qua e là nessuno ci fa caso. Penso che perfino gli equipaggi degli aerei potevano esserne all’oscuro. Tutto ciò di cui si ha bisogno è un uomo di fiducia all’interno della base aerea di Ilopongo, in Salvador, per fare il carico. Dopo, a nessuno verrà in mente di perquisire un aereo militare che rientra negli Stati Uniti da una missione.
Quali erano allora le agenzie governative implicate nell’invio della cocaina verso gli usa e nella sua distribuzione?
È difficile a dirsi, perché i trafficanti non avevano legami diretti con loro. Si tenevano sempre a debita distanza. Ho scoperto legami con il Dipartimento di Stato, con il Consiglio di sicurezza nazionale, la CIA e la DEA. Ognuna di queste agenzie era implicata in svariati modi. Siamo in possesso di prove significative secondo le quali membri del cartello in questione erano in contatto con funzionari delle suddette agenzie proprio mentre questo traffico di cocaina era al suo apice. Tali agenti non sono stati mai inquisiti.
Che legami ha scoperto circa la DEA?
La DEA era in rapporto con Norwin Meneses, il capo del cartello. Egli stesso lavorava per quest’agenzia già da qualche anno. Ecco perché non è mai stato arrestato negli usa: era protetto.
Ha saputo qualcosa di nuovo, nel quadro della sua inchiesta circa i legami tra la CIA e l’operazione nel suo insieme?
Uno dei legami che abbiamo scoperto passava attraverso un agente del Costa Rica. Abbiamo incontrato un corriere di questa rete, che lavorava per l’organizzazione di Meneses, a San Francisco. Questi ha identificato l’agente, ce ne ha fornito il nome e ha aggiunto che, secondo lui, controllava la distribuzione dei fondi, che trasportava personalmente. Esistevano anche corrieri gestiti da un agente della CIA, che era il loro finanziatore quasi esclusivo. Quest’uomo era Enrique Bermudez, il comandante della fdn, un’unità militare della Contra. Abbiamo anche ottenuto prove che qualcuno, a Washington, qualcuno corrispondente perlomeno a un alto funzionario della CIA a Washington, possedeva precise informazioni sul traffico che si svolgeva nella base aerea salvadoregna.
La CIA sembra sempre operare in modo da poter in seguito negare il suo coinvolgimento. È la loro prassi.
Esatto. Non beccherete mai la CIA in flagrante! Troverete persone stipendiate dall’agenzia che domandano ad altri di fare qualcosa. Proprio come nel nostro caso. Avete un agente straniero, Enrique Bermudez, che chiede a due uomini, la cui professione, guarda caso, è lo smercio della cocaina, di fare qualcosa per un esercito finanziato dalla CIA, sulla strada maestra della politica estera degli Stati Uniti. È dunque molto difficile credere che costoro facessero tutto ciò di testa loro. Io non ho mai incontrato trafficanti di cocaina generosi, neanche un po’.
Ha un’idea dell’ammontare delle somme che entrarono alla fine nelle casse della Contra, grazie alla vendita di cocaina?
Nel 1982 e nel 1983, all’epoca cioè in cui questo corriere lavorava per loro, egli stimava che questa somma fosse tra i 5 e i 6 milioni di dollari. [...] L’emendamento Boland, grazie al quale il Congresso soppresse i crediti che la CIA destinava alla Contra, è del 1984. Ma questi finanziamenti ripresero grazie alla reinstallazione di Meneses in Costa Rica. Danilo Blandon cominciò a fornire a Eden Pastora, uno dei comandanti della Contra, caserme, camion e soldi. Ma non abbiamo la più pallida idea delle somme che riguardano questi ultimi anni. Mi sorge il dubbio che la Contra non abbia mai ricevuto gran parte di questi narcodollari. Con tutta la cocaina venduta dalle nostre parti, se i soldi fossero andati interamente alla Contra, questa non avrebbe solo vinto la guerra, ma preso il potere in tutta l’America Centrale.
Milioni di dollari?
Non si sputa mica su 5 o 6 milioni di dollari.
Quindi lei afferma anche di aver trovato legami con il Dipartimento di Stato. Ciò rientra nel quadro?
Ciò fa parte del resto dell’inchiesta. Ancora inedito. Ma ci sono state stranissime riunioni, con certi funzionari del Dipartimento di Stato implicati in vicende di grande interesse.
Dall’inizio della sua inchiesta, si è assistito a una campagna molto intensa per screditarla e impedirle l’accesso ai mass media. Può parlarcene
Una campagna che mi sembra trionfale. Ma il dado ormai è tratto. Se guardate indietro, al momento degli scandali della CIA durante gli anni Settanta, rivelati da un esposto di Seymour Hersh, o dal lavoro di Daniel Schore per la cbs, troverete che entrambi si sono ritrovati oggetto della stessa campagna diffamatoria.
Può descrivere per i nostri lettori cosa le è capitato?
Be’, ho visto giornalisti scrivere che non avevo alcuna prova a sostegno di quanto avanzavo; che niente di quanto affermavo era fondato. C’è stato un articolo del «Washington Post», secondo cui l’inchiesta insinuava che la CIA avesse mire sull’America nera. Era una campagna di disinformazione molto sottile che cercava di far credere alla gente che questi articoli dicessero altro da ciò che in realtà dicevano. O per far loro dire altro da ciò che noi avevamo inteso. «Va be’, dopo tutto non ci sono prove», questo era quanto la gente avrebbe dovuto pensare. Si tratta di pura e semplice propaganda. Ho proposto un libro e c’è stata una fuga di notizie verso il «Los Angeles Times». Questi che cos’hanno fatto? Molto semplicemente, ne hanno censurato una parte pubblicando poi il resto sul loro giornale, in modo da farmi passare per un teorico del complotto.
Che cosa significa, secondo lei, la presenza del capo della CIA a un meeting a South-Central, Los Angeles?
Dimostra quanta paura avesse la CIA di questa storia: non avevano mai fatto una cosa del genere. Il capo della CIA che appare in pubblico e risponde a delle domande! Non si può certo dire che abbia poi risposto, ma almeno è stato obbligato a fingere di provarci. Questo ci dà l’esatta misura dell’allarme a Washington.
Parlando dei diversi attacchi subìti, ha utilizzato il termine campagna di disinformazione. Può dirci di più in merito?
Negli anni Ottanta, esisteva la «Gestione della Percezione». Si trattava di un programma istituito all’interno stesso del Dipartimento di Stato, da esperti in propaganda della CIA con l’obiettivo di: a) rilevare, ponendoli nell’impossibilità di nuocere, tutti i giornalisti critici verso la guerra della Contra e che lavoravano intorno al coinvolgimento della Contra nel traffico di cocaina; b) intimorire i redattori e gli altri giornalisti tentati di seguirne l’esempio. Ci sono molte similitudini, se guardate bene i risultati ottenuti negli anni Ottanta, con quanto succede oggi. C’è gente incaricata di propalare dicerie sul vostro conto. Sono gli agenti di Accuracy in Media, l’organizzazione di Reed Irvine, gli stessi, dunque, che oggi si svegliano per dire che dietro questa storia della CIA non c’è niente, che è tutto inventato. Gli stessi agenti, dunque, che erano montati sugli spalti negli anni Ottanta per sostenere che a El Mozote non era successo niente [un’unità speciale, addestrata dall’esercito americano, procedette allo sterminio della popolazione del villaggio di El Mozote, in Salvador, trucidando più di 300 tra uomini, donne, vecchi e bambini, ndr], che la notizia del massacro era una bufala e che il reporter del «Times», Raymond Bonner, era un simpatizzante comunista. Gli stessi. E una delle cose che s’impara, occupandosi delle agenzie d’informazione, è riconoscere il loro modo di operare. Le persone cambiano ma le procedure restano. La «Gestione della Percezione» degli anni Ottanta era uguale a quella praticata oggi. La grande stampa è ormai convinta che alla base della nostra inchiesta non ci sia nulla di concreto. Anche se nessuno, di fatto, è riuscito a scoprirvi degli errori.
Perché allora, malgrado questi attacchi, sia personali che diretti contro i suoi reportage, continuare a rischiare per raccontare questa storia?
Perché è vera. È la base di tutta questa storia: la verità. E si diventa per forza giornalisti per questa verità. Se pensassi che si tratta di favole, o se fossi convinto di essermi sbagliato, lo direi: «Ho fatto un errore». Ma non mi sto sbagliando. La gente deve conoscere questa storia non solo per capire quanto è successo, ma anche perché, perdiana, dovrà pur esserci un responsabile! È criminale quanto è accaduto. Si continua ad arrestare gente per traffico di cocaina. E proprio questo affaire ha fatto entrare tonnellate su tonnellate di cocaina negli Stati Uniti. Nei ghetti dei downtown. Ma nessuno finora è ancora stato punito per questo, a parte gli abitanti dei quartieri presi di mira. [...]
Devono comparire ancora quattro puntate, vero?
È come se non esistessero. Nessuno le pubblicherà mai.
Può farcene un sunto, a grandi linee?
Si tratta principalmente di sapere chi, nel governo degli Stati Uniti, era al corrente. E anche di conoscere i legami fra altre agenzie governative e i cartelli della droga. Le loro attività in Costa Rica, in Salvador. I vani sforzi dei poliziotti di Los Angeles per portare quei tipi lì davanti alla giustizia, come si sono fatti imbrogliare e prendere per il naso. Il coinvolgimento di Oliver North nel giro dei trafficanti di droga del Costa Rica, in ogni caso il coinvolgimento della sua rete. Esistono molte informazioni su questo aspetto. Tutto inutile...
«Revolutionary Worker», n. 912 22 giugno 1997
The Dark Alliance
18, 19 e 20 agosto 1996: il «San
José Mercury News» pubblica una serie di tre articoli di Gary
Webb. Nessun quotidiano nazionale li riprende. Ma le radio locali
della comunità nera, sì. Lo splendido sito internet che il «San
José Mercury News» dedica a The Dark Alliance, in cui, per la
prima volta nella storia del giornalismo, i testi degli articoli
vengono pubblicati con le relative fonti, in immagini e sonoro,
viene assalito dalle connessioni... fino a un milione al giorno!
Bisogna aspettare ottobre perché la stampa reagisca! Il «Washington
Post» apre il fuoco per tentare di smentire Gary Webb. Poi è la
volta del «New York Times», ma è al «Los Angeles Times» che
spetta la pubblicazione del pezzo forte in questa
campagna: dal 20 al 22 ottobre, una serie di tre articoli lunghi
come quelli di Gary Webb. La denuncia unanime della stampa
benpensante induce il caporedattore del «San José Mercury News»,
Jeremy Ceppo, a ritrattare. In seguito, Gary Webb va in pensione,
e pubblica nel 1998, presso le edizioni Seven Stories, il suo
libro The Dark Alliance.
Se lo straordinario sito internet The Dark Alliance del «San José
Mercury News» è stato chiuso, molti altri siti internet di
controinformazione forniscono oggi una documentazione di ottima
qualità intorno a questo dossier.
Michael Levine, il dissidente che la DEA ha bandito
Michael Levine ha alle spalle una carriera di venticinque anni come agente infiltrato al servizio di quattro agenzie federali americane nei cinque continenti. Egli è diventato il più noto e aspro fra i critici della Drug Enforcement Administration (DEA). Dal Triangolo d’Oro alle Ande, tutti i suoi sforzi per mettere le mani sui pezzi grossi del traffico sono stati, come ci spiegherà, sabotati dai burocrati della DEA e dalle pressioni della CIA. La storia delle sue operazioni contro la mafia boliviana della cocaina è raccontata dettagliatamente nei suoi libri Deep Cover (Delacorte, 1990) e The Big White Lie. Il suo ultimo libro, Triangle of death (Dell, 1996), scritto in collaborazione con la moglie, Laura Kavanau, è un giallo basato sulla sua esperienza professionale. È anche ospite fisso della trasmissione radiofonica settimanale Expert Witness, in onda sulla radio newyorkese wbai-fm, nei cui studi è stata realizzata questa intervista.
«High Times» – Perché un ex agente della DEA interviene in una radio?
M. Levine – Perché si assiste alla totale abdicazione dei media, che non svolgono più il loro ruolo, per quanto minimo, di controllo. Io ero il funzionario americano di grado più elevato nel cono Sud. Ebbene, voi non potete immaginare peggiori tradimenti verso il popolo americano di quelli cui mi è toccato di assistere! E voglio parlare del sostegno fornito dalla CIA e dai suoi collaboratori alla presa del potere in Bolivia da parte di narcotrafficanti e ricercati nazisti.
Ci vuole parlare del 1980 quando, dopo il «colpo di Stato della cocaina», l’economia sudamericana della droga è diventata un’industria di grandi proporzioni...
È esatto. Ciò che voglio dire è che tutto si svolgeva sotto gli occhi dei mass media. «Newsweek» aveva pubblicato un articolo sulla situazione boliviana talmente lontano dalla realtà, che ho fatto la più grande stupidata della mia vita inviando alla redazione una lettera con intestazione dell’ambasciata in cui dicevo: «Voi siete totalmente inseriti dentro il programma, la verità è che la CIA ci ha tradito».
Dov’è stato l’errore?
I giornalisti non mi hanno mai chiamato e io mi sono ritrovato con una inchiesta interna sul groppone. E chi si è reso conto che qualcosa andava veramente storto nella copertura degli avvenimenti in Bolivia? Sentite questa! «High Times», articolo di Dean Latimer (agosto 1981). Ve lo riassumo. Diceva, per sommi capi: «Il governo ha lavorato di lima fin nei dettagli di questo colpo di Stato, e non cerca nemmeno di metterlo al suo attivo. C’è qualcosa che non torna».
E ciò si riferisce a...
All’affaire Roberto Suarez, che mi hanno sabotato in ogni modo. E «High Times» è stato il solo organo di stampa ad aver fiutato la pista giusta. Se avessi scritto a loro invece che a «Newsweek», avrebbero svelato il caso.
Riprendiamo dall’inizio. Com’è entrato nella DEA?
Quand’ero nella
polizia militare, per una storia del cazzo, un giorno un tipo mi
ha piantato una pistola nello stomaco e ha premuto il grilletto.
Il colpo non è partito. Questa vicenda ha provocato in me un
profondo cambiamento. Ho voluto vivere a cento all’ora. Pensavo
allora che avrei potuto diventare il James Bond degli agenti
infiltrati. Ero bravo nelle infiltrazioni. Parlavo correntemente
lo spagnolo. Conoscevo la strada. Da giovane ero stato un
teppista, arrestato due volte prima dei sedici anni. Ora, ero
pagato per andare a zonzo nel Bronx come da ragazzino. Nel 1965,
ero uno dei pochi, insieme a quelli del fisco, che potevano
comprare dei numeri della bolita, la lotteria clandestina
ispanica. Potevo spacciarmi per chi volevo. Facevo tutto questo
senza un vero scopo, giusto come un gioco che poteva offrirmi una
dose di brivido. Fino al momento in cui scopro che proprio mio
fratello, David, era scimmiato di eroina.
Di colpo ho creduto di vedere il puzzle nelle sue concatenazioni.
Io ci credevo, sapete, al discorso ufficiale. Per me, lo
spacciatore di droga era davvero il peggio del peggio. E mi sono
messo in testa che se m’ero salvato era solo per uno scopo:
entrare nell’antidroga.
Lei era dunque nella DEA fin dalla creazione dell’agenzia?
Sì. Nel 1970
sono stato trasferito dall’ufficio ATF (1) alla brigata di
investigazione sulle droghe pesanti alle dogane. Ed è là che per
la prima volta ho avuto a che fare con la CIA. È stato in
occasione del processo Governo degli Stati Uniti vs. Liang-Sae Tiw
et al. Il caso iniziò il 4 luglio 1971, con un arresto
all’aeroporto Kennedy di New York. Il tipo arrestato è
diventato un mio informatore. Faceva venire l’eroina da Bangkok,
in Thailandia. Abbiamo messo le mani sui suoi associati, che
organizzavano la distribuzione su scala nazionale, in una palude
della Florida. E sono andato a infiltrarmi in Thailandia per
incontrare il loro contatto a Bangkok. I signori mi adoravano, ci
tenevano a portarmi con loro fino a Chiang Mai. Ma le cose
cominciano ad andar male. Io non riesco a ricevere i fondi per
l’operazione: seguo questo tipo della mafia, che mente come un
cavadenti, e loro cominciano seriamente a pensare di sopprimermi.
Da parte mia, inizio a dare in escandescenze con i miei superiori.
Risultato, a mezzanotte mi portano all’ambasciata degli Stati
Uniti. Vi incontro il capo delle dogane americane, Joey Jenkins, e
un tipo calvo in camicia guayabera che mi dice: «Lei non andrà a
Chiang Mai». Dopo che se n’è andato, Jenkins si gira verso di
me e mi mormora all’orecchio: «Quel tipo è della CIA».
Allora, eseguendo gli ordini, arresto quello con cui facevo affari
e chiudo il caso. Ho perfino ricevuto una medaglia speciale dal
Dipartimento del Tesoro. Ma non sono riuscito né ad andare a
Chiang Mai né ad arrestare i fornitori. Parecchi anni dopo,
mentre lavoravo per conto della DEA, che aveva in carico le
fazioni tribali del Triangolo d’Oro, ne ho di nuovo sentito
parlare. Era proprio questa rete, che mi si era impedito
d’intaccare, a introdurre l’eroina negli Stati Uniti
nascondendola dentro i cadaveri dei soldati rimpatriati. Ma
all’epoca, tutto ciò che sapevo è che mi si impediva di
realizzare il più grosso sequestro di eroina di tutti i tempi.
Nel 1973 sono stato incorporato nella DEA, subito dopo la sua
istituzione. Quando mi sono di nuovo trovato in contrasto con la
CIA, ero in Sudamerica. Ed è là che ho veramente flippato
correndo rischi enormi.
Nel frattempo suo fratello si è suicidato.
Sì, nel 1977. Lasciando scritto: «Non posso più sopportare le droghe». Aveva 34 anni. Il mio desiderio di azione si è decuplicato, del tipo: «Gliela faccio vedere io a quei figli di puttana».
In Sudamerica il suo bersaglio era Roberto Suarez, il «re della cocaina».
Sì, anche lui mi adorava. Io gli ho parlato solo al telefono, ma lui mi dava del «comandante», lo stesso titolo attribuito a lui. Fu arrestato anni dopo, ma la mia operazione era stata sabotata. La nostra finta famiglia mafiosa si era installata in una casa a Miami. Si fingeva di avere un pacco di grana, e non si aveva un soldo. Teatrino. Il nostro budget per l’intera operazione ammontava a 2500 dollari, subito finiti.
In un rapporto della DEA (Operation Hun: A Chronology) sta scritto che esistevano prove sufficienti per incolpare l’intero governo boliviano. E la CIA ha bloccato tutto perché metteva in pericolo i loro programmi. Nel rapporto, si legge: «un’altra agenzia», il solito eufemismo.
Io mi spacciavo
per un compare mezzo siciliano mezzo portoricano, Miguel Luis
Garcia, e loro hanno abboccato. Pagai 9 milioni di dollari a José
Gasser e Alfredo «Gutucci» Gutierrez attraverso una banca di
Miami, mentre i nostri aerei sorvolavano la giungla boliviana, e i
nostri ragazzi misero le mani su una mezza tonnellata di pasta di
coca. Regolai i dettagli del contratto con Roberto Suarez dopo
Buenos Aires e saltai su un aereo per Miami. Gli si misero sotto
gli occhi i 9 milioni in contante. Il tutto non durò più di due
ore.
Li si arrestò, ma vennero immediatamente rilasciati. Tutte le
accuse contro Gasser furono respinte da Michael Sullivan, giudice
federale di Miami. Gutierrez, rilasciato sotto cauzione, riparò
in Bolivia e ordinò di uccidermi. Sullivan sosteneva che non si
poteva vincere. Stronzate. Gli dissi: «Spesso abbiamo in mano
molto meno contro la maggior parte degli americani attualmente in
prigione». Cominciai a definirla «un’ostruzione da parte del
Dipartimento della Giustizia». L’operazione Hun si chiuse con
la mia messa sotto inchiesta interna e l’espulsione
dall’Argentina. A Buenos Aires subii un attentato da parte di
gente al servizio della CIA, degli assassini professionisti
argentini. Assassini di massa. Boia a ripetizione. Chiamateli come
volete.
Quelli dei desaparecidos?
Sì. Mi è difficile dirvi quanto li odio quei signori là. Ma io ero un miracolato, non un nazi.
Così, già prima di sostenere la Contra in Nicaragua, la CIA proteggeva i cartelli sudamericani?
Ho cercato di appurarlo. Ho scoperto che il padre di José Gasser era stato uno dei fondatori della Lega anticomunista mondiale. E che era in contatto con la CIA dall’inizio degli anni Sessanta. Per il mio primo colpo portato a segno in Bolivia, che «Penthouse» ha definito la più grande truffa di tutti i tempi, avevamo bisogno dell’aiuto del governo boliviano. A quell’epoca, nel 1980, era al potere Lidia Gueiler. Era alla testa di un governo liberale, proibizionista convinta, e ci ha aiutato. Tanto che i trafficanti sono poi andati a raccontare ai loro corrispondenti della CIA che Lidia Gueiler era una militante di sinistra. Ecco perché il governo degli Stati Uniti ha sostenuto la «rivoluzione» in Bolivia: facendo venire degli argentini, sbloccando fondi segreti ecc. Tutti sanno che i trafficanti di droga sono capitalisti. Sono sempre anticomunisti! [Risate].
Chi finì in prigione, dopo l’operazione Hun?
M.L.: Il pesce più
grosso, «Papo» Mejia, uno degli assassini più dementi mai nati
in Colombia. E quella bellissima donna, Sonia Atala, la «Regina
della cocaina» boliviana. Vendeva più cocaina lei di qualunque
altro essere vivente. Disponeva di truppe scelte, e un potere di
morte su chiunque, dappertutto e sempre. Nel 1980, di fatto, salì
al potere. Nel 1982 rimasi completamente paralizzato dalle
inchieste e dagli attentati contro di me. Mi trasferirono al
Quartier Generale della DEA. Venni pedinato, il mio telefono fu
messo sotto controllo. Tappa successiva, mi domandarono se ero
pronto ad accettare una missione di infiltrazione. Avrei fatto
patti col diavolo pur di riuscire ad allontanarmi dal Quartier
Generale della DEA. Domandai: «Di che affare si tratta?», e mi
risposero: «Quella donna, Sonia Atala. Vogliamo che tu ci vada a
vivere insieme». Aveva deciso di collaborare. Il suo potere era
diventato tale che il «ministro della cocaina» della Bolivia,
Luis Arce Gomez (cugino di Roberto Suarez), l’aveva presa di
mira e cercava di toglierla di mezzo. Dopo aver incassato due
milioni di dollari da Papo Mejia, i suoi fornitori rifiutarono di
effettuare la consegna. Papo le disse: «O mi restituisci i soldi,
o ti uccido tutta la famiglia». Adesso erano i colombiani, oltre
ai boliviani, a volerle fare la pelle. Lei andò direttamente alla
DEA. E si pensò a me come suo compagno.
C’installammo a Tucson, in Arizona, recitando la parte
dell’uomo e la sua amichetta. Avevamo intenzione di cominciare
ad acquistare, e quindi di mettere le mani su ciascuno dei
colombiani e dei boliviani che avessero voluto fare affari con
noi. I miei dossier contro Roberto Suarez, Arce Gomez, Klaus
Barbie e tutta la cricca s’ispessirono. Il governo cominciò a
fare il difficile quando si trattò di scegliere chi avrebbe
dovuto essere incolpato. Ma almeno Papo ce l’abbiamo, ora sconta
i suoi trentacinque anni. Sonia è rientrata in Bolivia e ha
recuperato tutti i suoi beni.
Cosa intende per «truppe scelte naziste» a sua disposizione?
Intendo dire mercenari europei addestrati da Klaus Barbie («il macellaio di Lione», ufficiale della Gestapo ricercato). La sua villa a Santa Cruz, in Bolivia, era soprannominata la «casa della tortura». Aveva spesse mura e tutto l’equipaggiamento necessario.
E lei abitava con quella donna a Tucson?
Sì. Allora lei vendeva droga. Si è fatta pizzicare mentre vendeva a due infiltrati della DEA, due agenti del Texas, che sono stati obbligati a non arrestarla. È tutto scritto nero su bianco in The Big White Lie. I nomi, le date, i luoghi e i momenti.è
Ci ha fatto l’amore?
No. Potevano sottopormi in ogni istante alla macchina della verità..
L’operazione Trifecta fu il vostro tentativo successivo per far cadere la mafia colombiana?
Esatto. Il nostro obiettivo era la Corporacion, organizzazione nata dalla rivoluzione. Noi avevamo anche preso di mira l’intero governo messicano, inclusa l’équipe del futuro presidente Carlos Salinas. E, una volta di più, dovevamo renderci conto che il Dipartimento di Giustizia faceva tutto il possibile per insabbiare la faccenda. Fino a far sì che il ministro della Giustizia, Edwin Meese chiamasse il suo collega messicano per avvertirlo!
Ancora una volta, perché?
Il futuro presidente, Salinas, assicurava ai nostri politici l’appoggio al NAFTA (2). Nello stesso tempo, i suoi subordinati raccontavano a me, «Luis Miguel Garcia», padrino di mafia mezzo siciliano, che una volta al potere Salinas, il Messico si sarebbe spalancato al traffico.
Ed è andata proprio così.
Esattamente! E tutto questo è disponibile in un video. Ma se gli americani avessero saputo del nocciolo della faccenda, niente nafta!
Avete comunque arrestato il colonnello Jorge Carranza, figlio del fondatore del Messico moderno.
Esatto, il figlio di Venustiano Carranza, il George Washington messicano! Stava seduto davanti a me in alta uniforme, e mi assicurava che avrei potuto far cadere il governo. E intanto il video filmava.
E che ne è stato di tutta quella gente?
Sono tutti liberi. Carranza è stato assolto in appello. Io ho scritto un memoriale che racconta come il governo abbia fatto di tutto per demolire l’affaire. Se mi si fosse lasciato andare avanti, avrei incontrato i veri padrini della Corporacion, in particolare il ministro della Difesa messicano, Arevalo Guardoqui. Mi era stato combinato un appuntamento con lui, sempre sotto l’occhio della telecamera!
Perché non è successo niente?
Bisogna chiederlo a loro. Io sono andato alla trasmissione di McNeil e Lehrer, e il vero capo della DEA, Terry Burke, si è rifiutato di rispondere in onda alle mie accuse. Ha detto: «Voi capite, questo ragazzo è implicato in un affare commerciale», un riferimento al mio contratto editoriale, probabilmente.
Oggi, Luis Arce Gomez e Roberto Suarez sono entrambi in prigione.
Sì. Arce Gomez negli USA e Roberto Suarez in Bolivia. Se si può chiamare quella una prigione! Vive nel lusso.
Nel suo romanzo, Triangle of Death, molti personaggi sono riconoscibili, li si è già incontrati in altri suoi libri.
Il fatto è che non si tratta veramente di immaginazione. Il Triangolo della morte è il vero nome dell’organizzazione creata da un ex capo della Gestapo, Augusto Ricord. Costui è stato condannato a morte in contumacia in Francia. Metteva in atto operazioni in Paraguay col sostegno della CIA. Volete una prova della potenza di quest’organizzazione? Un’inchiesta delle dogane, iniziata con una partita di eroina ordinata dalla mafia italiana al Triangolo della morte, si concluse con incriminazioni in tutto il mondo. Ma il Paraguay si rifiutò fermamente di consegnare Augusto Ricord, finché Nixon non minacciò un’invasione. Allora cedette. La nostra prima reazione fu di farne dono alla Francia. Ma non lo volevano! Ci dissero: «L’avete voi, tenetevelo!». Incriminato negli USA e condannato a una pena detentiva, nel giro di due anni è stato rilasciato. È rientrato in Paraguay ed è morto in libertà.
Avete dunque le prove di tutto, perché allora farne un romanzo?
Nessuno legge altro. La gente è persuasa che le storie narrate da Tom Clancy siano vere. Ho visto gente piangere alla rappresentazione teatrale di Clear and Present Danger. Io mi trattenevo per non urlare: «È una menzogna, è tutta propaganda!» ma la gente ci crede. Allora abbiamo deciso di scrivere un thriller che mettesse in scena la vera CIA, perché adesso so che la gente avrà più paura di questo che di tutti i documentari del mondo!
Suo figlio Keith era nella polizia di New York. È stato ucciso in servizio.
Il 28 dicembre 1991. Stava cercando di impedire un furto. L’uomo che ha ucciso mio figlio era uno scimmiato di crack che aveva già ucciso altri due uomini, imprigionato due volte, e due volte rilasciato.
Di recente lei ha pubblicamente proposto al governo della Costa Rica di arrestare Oliver North perché risponda alle accuse di traffico di droga davanti alla giustizia di quel Paese?
La Corte Suprema
degli Stati Uniti ha deciso che i nostri agenti potevano
intervenire in altri Paesi per arrestare persone che avessero
infranto le nostre leggi. Ebbene, Oscar Arias, premio Nobel e
presidente costaricano, ha proibito a vita l’ingresso nel suo
Paese a Oliver North, per associazione a delinquere allo scopo di
far transitare dal Costa Rica la droga destinata agli Stati Uniti!
Io ho portato questa logica fino in fondo: visto che gli USA
avevano legalizzato arresti di questo tipo, ch’io avevo già
praticato per conto della DEA, sarei stato felice di farne
approfittare il Costa Rica!
E volevo soprattutto esser chiaro su un punto: ho passato
praticamente tutta la mia vita di adulto all’interno di questo
sistema, credendo fermamente che il fine giustificasse i mezzi. Ho
imparato poi che questo modo di pensare è quanto di peggio ci
possa capitare; è proprio questo modo di pensare che rischia di
distruggere le nostre libertà.
(1)
Bureau for Alcohol, Tobacco and Firearms: un corpo di polizia
specializzato in alcol, tabacco e armi da fuoco.
(2) Accordo di libero scambio nordamericano,
comprendente Stati Uniti, Canada e Messico. [NdT]
L’intervista a Michael Levine appare per gentile concessione della rivista «High Times».
IL PRESIDENTE ERA IN AFFARI CON IL FRATELLO DI OSAMA BIN LADEN
Il mio socio George Bush
Avrebbero fondato insieme la Arbusto Energy, una compagnia petrolifera del Texas
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A poco meno di due
settimane dall'attentato al World Trade Center emergono inquietanti
rivelazioni che collegano il presidente americano George Bush alla
holding Bin Laden. Il quotidiano britannico Daily Mail scrive
infatti che uno dei fratelli di Osama Bin Laden, il miliardario
saudita indicato come il massimo responsabile degli attacchi a New
York e Washington, sarebbe stato in affari proprio con la massima
autorità degli Stati Uniti.
Salem Bin Laden e George W. Bush avrebbero
fondato insieme, nel Texas, una compagnia petrolifera, la
Arbusto ( Bush, n.d.r.) Energy.
Salem, uno dei 54 fratelli di Osama, avrebbe investito gran parte del
suo capitale derivante dall'eredità del padre in compagnie
petrolifere e nel 1978 avrebbe nominato James Bath,
un intimo amico di George W. Bush come suo rappresentante a Houston.
Sempre stando alla pubblicazione del giornale britannico, Bath avrebbe
investito la somma di 50 mila dollari nelle azioni della Arbusto
e, sempre per conto di Salem Bin Laden, avrebbe acquistato l'aeroporto
della Houston Gulf.
Il filo rosso tra la famiglia Bush e quella Bin Laden si interruppe
tragicamente con la morte di Salem in un misterioso
incidente aereo avvenuto nel 1983 proprio in Texas.